CAP XX

Sull’ umiltà

Prendendo una moneta su cui era impressa l’effigie dell’imperatore romano e dopo averla osservata disse: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Questa la risposta che diede Gesù a chi gli chiese, in modo capzioso, se fosse giusto pagare i tributi a Roma. Ma tale risposta venne nel tempo mal interpretata ed è spesso citata a dare certificazione di una dicotomia falsa secondo cui le cose dell’uomo debbano essere dissociate da quelle di Dio. Un astuto sotterfugio interpretativo per escludere Dio dalle faccende umane! Possibile?

Il senso sottinteso delle parole di Gesù era in realtà: “date a Dio ciò che è di Dio: cioè Tutto! A Cesare ciò che è di Cesare: cioè Nulla!”

Perfino davanti al governatore della Galilea che lo interrogava Gesù disse temerariamente : “Non avresti alcun potere se non ti venisse da Dio!”.

I passi evangelici richiamati vogliono solo significare che noi siamo ben piccola cosa.

Superbia, vanagloria, boria, protervia son tutti aspetti del mostro egoico che ritroviamo descritto nella già richiamata leggenda di Narciso che, innamorato perdutamente di se stesso, si autodistrugge.

Di nulla siamo padroni, nulla è nostro ma tutto è di Dio e tutto ci viene da Lui: la nostra salute, la nostra intelligenza, la nostra ricchezza, la stessa nostra vita. Che cosa rimane a noi? Rimane solamente la libertà “do-na-ta-ci” di scegliere tra l’ego ed il Tutto.

Paupertas, la povertà intesa come contrapposizione al ricco, opulento possesso di beni materiali, è sicuramente una voce che avvicina all’Assoluto ma non necessariamente alla condizione di umiltà. Essa condizione è efficace se mi spoglio volontariamente delle ricchezze dimostrando di non tenerne in conto e comunque assumendo comportamenti di generosità che denunciano un animo privo di avidità.

Di contro, si può essere poveri ma non umili. Gesù definisce “beati” i poveri di spirito, non i poveri di beni, sebbene verso questi ultimi nutra tenerezza ed inciti a dare loro soccorso.

Per paradosso, potremmo constatare che talvolta il povero è tutt’altro che umile; può anzi accadere che sia invece avido di possedere beni terreni ed imprechi contro il Cielo che ha negato incomprensibilmente, proprio a lui, ricchezze ed onori!

Se pur di rado, potremo altresì incontrare uomini di successo, o che occupino alte funzioni, che mantengano modi semplici senza ostentare albagia e boria per i doni che il destino volle offrir loro: intelligenza, successo, onori.

Parlando di povertà e di umiltà, il pensiero corre ad un gigante che molto ha da insegnarci: Francesco, il poverello d’Assisi, come talvolta viene chiamato. Ma costui era tutt’altro che “poverello”! Come molti sanno apparteneva ad una delle famiglie più ricche e note della opulenta Assisi.

Di grande cultura cattolica, ebbe una profonda trasformazione al ritorno dalla Terra Santa ove si era recato per difendere il Santo Sepolcro. Che cosa realmente accadde in quelle lontane terre ricche di storia e di suggestione non è dato di conoscere; ma forse quel suo ritorno da “illuminato” lascia sospettare che laggiù trovò una setta iniziatica da cui ricevette insegnamenti occulti (la Scuola Misteriosofica del Mar Morto).

Tornato ad Assisi rinnegò tutta la sua vita pregressa, la sua famiglia e le ricchezze che essa possedeva; indossò degli stracci e dedicò la sua esistenza a Dio rivitalizzando la Chiesa e la sua dottrina.

Possiamo per un solo istante immaginare Francesco povero ma non umile? No di certo. Egli seppe interpretare, col proprio agire, la coniugazione tra povertà ed umiltà in modo mirabile. Fu davvero esempio preclaro di ciò che va inteso come “operaio della vigna del Signore” e tutto ciò in serena letizia.

Possiamo affermare che l’umiltà, quella autentica, è specchio in negativo del peccato capitale della “superbia” e ci difende da questo esiziale vizio. Ma è altresì l’arma vincente contro l’autocompiacimento.

Guai alla voce di satana Panteo, re e gubernator mundi (le c.d forze arimaniche o luciferiche). I suoi aliti sono pieni di voluttuosi inviti. E la voce sua è talora e troppo spesso udibile sotto il nobile proponimento dell’amore per l’umanità. Ma essa parla multiformi lingue: all’artista di arte, al mistico di beate visioni, all’uomo d’azione di successi. Essa voce sale dall’abisso e via via si appesantisce delle dense volute dell’autocompiacimento.

………La voce del re Panteo tutti l’odono e la seguono, mai rifuggita a sufficienza: Dio guardi dal vero seguirla!” (da una comunicazione del 13 marzo 1987).

Questo è l’edificio che dobbiamo tentare di costruire: ciascuno il suo tempio. Prendere coscienza di esso permette di sciogliere i nodi di quel cordame che ci lega alla colonna ragione! Qui non si invita certo a ripudiarla, bensì a superarla. Poiché se davvero si cerca, e con cuore sincero, sarà possibile trovare le chiavi per aprire le porte di bronzo che ci serrano nel dubbio. Sarà possibile riuscire a conoscere noi stessi – accedendo così ai piani ulteriori della coscienza – e penetrare i Misteri.

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