CAP X

Se uno vuole accogliere Me ha da accogliere il suo prossimo perché chi accoglie il suo prossimo accoglie Me; ma chi accoglie Me non me, ma il Padre mio, colui accoglie.

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E’ tradizionalmente accettato che i primi apostoli di Gesù fossero dei rozzi ed ignoranti pescatori che, attratti dalla poderosa magnetica personalità del Cristo, abbandonarono le loro capanne, le loro barche e reti, per seguirlo ovunque.

E’ probabile che essi fossero umili e semplici, ma non mi sentirei di concordare sul termine “ignoranti” e “rozzi”, anzi, al contrario, è da ipotizzare che taluni di loro fossero dotati di intelligenza brillante e di notevole cultura e, direi ancora, è da supporre che fossero ad un certo livello di “formazione iniziatica”, peraltro non raggiungibile se non da chi già ricco di virtù tra cui l’umiltà di cuore.

Ed ancora una volta tutto ciò è desumibile proprio dagli Evangeli, in particolare da quello di Giovanni che, iniziato egli stesso ai Misteri, scrive servendosi di sistemi in “codice”, offrendo e tramandando così “segreti” decifrabili solo da chi in possesso delle relative chiavi di lettura.

Vediamo quali furono i primi discepoli di Gesù.

Giovanni Battista si trovava con due suoi discepoli quando sopraggiunse Gesù. Costoro Gli dissero: “Rabbì (che tradotto significa Maestro), dove stai? E Gesù rispose loro: “Venite e vedrete”. Andarono e videro dove stava e quel giorno stettero presso di Lui”.

Ma cosa deve intendersi “andare a vedere dove sta il Cristo? E’ forse da interpretarsi come un invito di cortesia espresso da Quest’ultimo presso la propria abitazione? Ma quale l’abitazione di Chi senza dimora? O è forse da intendersi come l’invito rivolto a persone che per la loro cultura e preparazione erano in grado di comprendere, anche se solo parzialmente, il Cristo sotto il profilo della preparazione iniziatica e cioè comprendere “dove” Egli “stava”, intendendolo come condizione sovramateriale? E del resto, se così non fosse, perché nel testo evangelico dopo la frase “andarono e videro dove stava” è aggiunto tautologicamente “… e quel giorno stettero presso di Lui”?

Ma non è tutto.

Uno dei primi discepoli è Andrea fratello di Simone Pietro. Andrea subito dopo il suo incontro con Cristo raggiunge il fratello notiziandolo di avere conosciuto il Messia e subito lo conduce da Questi. L’indomani Gesù “trova” Filippo che a sua volta informa Nataele che, seppur scettico, segue Filippo per conoscere l’uomo da quest’ultimo descritto. Si noti che Filippo è della stessa città di Andrea e di Simone Pietro e cioè di Betsaida. Si direbbe che costoro facciano parte della medesima scuola o, se si preferisce, setta iniziatica.

Appena Gesù vede Nataele gli dice: “Ecco un autentico israelita in cui non c’è falsità” Gli dice allora Nataele: “Donde mi conosci?” Gli risponde Gesù: “Prima che Filippo ti chiamasse ti ho visto sotto il fico”.

Anche quest’ultima frase va interpretata in chiave iniziatica. Non è certo pensabile, attenendosi alla interpretazione letterale che Gesù abbia “visto”, sia pure con gli occhi dello spirito, Nataele mentre sostava oziosamente sotto il fico (si badi non sotto un fico ma sotto il fico) poco prima di essere chiamato da Filippo. E’ più probabile, ed anche plausibile, che Gesù al momento dell’incontro abbia riconosciuto Nataele quale iniziato e glielo abbia comunicato usando il termine per l’appunto comprensibile solo ad un “addetto ai lavori” dicendogli di averlo visto sotto il fico. In questo caso la parola “fico” va intesa nel senso che le abbiamo attribuito in precedenza parlando del Buddha, e cioè nel senso di albero di “Bo” o “Bodhi” sotto il quale Buddha, come vuole la tradizione, pervenne alla illuminazione. Dunque Gesù riconosce in Nataele un “risvegliato” in senso iniziatico quando pronuncia la frase “ti ho visto sotto il fico”. Solo allora Nataele comprende di trovarsi di fronte ad un maestro di altissimo grado e ne riconosce l’autorità di Messia affermando: “Rabbì sei il figlio di Dio, tu sei il re d’Israele”. E Gesù replicando: “Perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico credi? Vedrai cose ben più grandi”. Quindi rivolgendosi a tutti: “In verità in verità vi dico: “vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e discendere sul figlio dell’uomo”. Anche quest’ultima frase è in assonanza con quanto detto prima e cioè che il grado di iniziazione dei discepoli, ai quali si rivolge, giungerà, attraverso i più profondi insegnamenti impartiti da Gesù, a permettere loro di possedere la capacità di vedere oltre la realtà materiale (“vedrete il cielo aperto …”).

Più volte nel Vangelo, come nel passo di Marco: 11-12,14, si fa riferimento al FICO inteso in senso simbolico, e del resto non deve sorprendere dal momento che, come abbiamo visto, il ricorso al simbolo nelle dottrine esoteriche è piuttosto frequente e risponde a talune economie mentali.

Ma esaminiamo il citato passo evangelico dal titolo “La maledizione del fico”:

“il giorno dopo uscendo da Betania, ebbe fame ed avendo visto da lontano un albero di fico in foglie, andò ad osservare se per caso trovasse qualche cosa; ma approssimatovisi, non vi trovò che foglie, poiché non era stagione di fichi. Allora rivolto al fico disse: “Mai più in eterno qualcuno mangi frutti da te”.

E i suoi discepoli sentirono”

Il mattino seguente il fico viene visto dai discepoli disseccato fin dalle radici.

Il non senso della interpretazione letterale deve indurci a ricercare altrove il vero significato: perché Gesù, affamato, cerca tra le foglie rigogliose di una albero di fichi qualche frutto da mangiare, ben sapendo di non poterne trovare non essendo stagione di fichi? E, quindi, non avendone trovati, come era del resto logico, fa miracolosamente disseccare l’albero maledicendolo?

Una delle interpretazioni possibili del racconto, che qui ha sapore di parabola più che di resoconto di un a fatto reale per gli aspetti fantasiosi, potrebbe essere quello di vero e proprio monito: Colui che è illuminato dalla conoscenza (il simbolo del fico) non si bei nell’autocompiacimento di ciò che di lui può apparire esteriormente (il rigoglio di foglie), ma metta a frutto le proprie capacità che gli vengono dalla conoscenza, proiettandosi generosamente verso i fratelli, rendendosi utile e fruttifero e non tenendo solo per sé.

Ed il donare è d’ogni tempo e d’ogni momento per colui che sa (la stagione dei frutti), poiché in ogni tempo ed in ogni momento il fratello può chiedergli. Ma al fico privo di frutto è riservato un domani di avvizzimento e di vuoto, come per il sapiente al quale, per avere agito nell’egoismo, è riservata nella incarnazione successiva (il giorno dopo) una esistenza priva di ogni virtù esteriore, come pure della luce interiore della conoscenza (le radici): il fico, infatti, il giorno dopo era disseccato fin dalle radici (la parte interiore invisibile) ((1. Analogo senso possiamo trovare nel passo di Lc. 19-11,27 – “La parabola delle mine” – ed in quello di mt. 25-14,30 – “La parabola dei talenti”-))

 

Seneca (…) guai alla voce di Satana Panteo re e gubernante mundi. I suoi aliti sono pieni di voluttuosi inviti. E la voce sua è talora, e troppo spesso, udibile sotto il nobile proponimento dell’amore per l’umanità. Ma essa parla multiformi lingue: all’artista di arte, al mistico di beate visioni, all’uomo d’azione di successi. Essa voce sale dall’abisso e via via si appesantisce delle dense volute dell’autocompiacimento. (…)

 

Devo presumere che sia sufficientemente attendibile la tesi secondo cui i protagonisti dei vangeli, e cioè gli apostoli e Gesù in particolare, siano da considerare dei personaggi “speciali”, vale a dire educati attraverso severe discipline, a noi sconosciute, atte ad accrescere in modo incomparabile le doti umane.

Quanto affermo peraltro non aggiunge nulla di nuovo a ciò che è stato detto o ipotizzato. Già Edoardo Schuré nel suo libro “I Grandi Iniziati” afferma che di Gesù si ha traccia solo attinentemente alla Sua infanzia ed ai Suoi ultimi tre anni di vita, avendo trascorso il lungo periodo intermedio presso gli Esseni (dei quali vestiva, tra l’altro, la caratteristica tunica di lino).

Di Lui, presso quella misteriosa scuola iniziatica, ubicata forse ad Engaddi sulle rive del Mar Morto, scrive Schuré:

“Accolto come un fratello, salutato come un eletto, dovette certamente acquisire sui Suoi maestri stessi un invincibile ascendente sia per le Sue facoltà superiori e l’ardente carità, sia per quel non so ché di divino diffuso in tutto il Suo essere. Da essi ricevette quello che gli Esseni solo potevano darGli, e cioè la tradizione esoterica dei profeti, e con essa l’orientazione storica e religiosa”.

In realtà molti sono gli elementi e le tracce riscontrabili negli Evangeli che inducono a ritenere estremamente probabile tale tesi. E’ quindi anche pensabile che la realizzazione in termini per così dire “pratici” del piano salvifico del Cristo sia stata ben più complessa di quanto si possa immaginare.

Cristo e i Suoi discepoli hanno seguito per lungo tempo pratiche e discipline iniziatiche; hanno studiato, meditato, hanno temprato se stessi giungendo ad elevatissimi livelli di conoscenza e giungendo ad operare l’ampliamento della coscienza e l’accrescimento delle proprie virtù e delle proprie doti. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che grande doveva essere la preparazione e la forza morale di coloro che, a quel tempo erano chiamati a … stravolgere il mondo!

La preparazione del discepolo si articolava in più fasi, che lo portavano alla conoscenza dei Misteri. Una di queste fasi, appartenenti ad un grado avanzato della preparazione, consisteva nel provocare artificiosamente nell’iniziato uno stato di catalessi, sicché dal corpo fisico del soggetto, portato in “limine mortis”, si verificava il distacco dei corpi eterico ed astrale. La singolarità dell’esperienza consisteva nel fatto che, contrariamente al sonno fisiologico, questo particolare stato di torpore, che durava tre giorni e mezzo, permetteva all’individuo di avere, in forma cosciente, la percezione dei mondi superiori, talché, al risveglio, portava con sé il ricordo di quella irripetibile esperienza ed il suo essere subiva un radicale mutamento destinato ad incidere profondamente per tutto il resto della sua vita.

Prima di indicare i quattro gradi della iniziazione, come ci sono stati riferiti dalla nostra Guida, desidero citare un episodio che mi riguarda personalmente e che ritengo estremamente singolare, anche se non è stato l’unico.

Come si vedrà dallo stralcio del verbale della seduta del 05/10/1986, la nostra Guida mi chiese quali fossero i gradi di iniziazione.

 

Seneca Il Cristo cercheremo insieme di comprendere un po’ più quando parleremo dei Suoi quattro gradi di iniziazione: quali, Ovest?

 

Senza celare meraviglia per la domanda proprio a me rivolta, dissi di ignorarli. Seneca ne fece quindi la breve enunciazione.

Fin qui, potrei dire, nulla di strano, se dopo pochi giorni non mi fossi imbattuto nel libro di E. Schuré intitolato “L’Evoluzione Divina – Dalla Sfinge al Cristo”. In quel testo sono indicati nel medesimo ordine e con la medesima terminologia i primi quattro gradi della iniziazione (sono sette in tutto).

Mi colpì il fatto che del gruppo dei partecipanti fissi alle sedute, tutti potenziali lettori di quel testo, fosse toccato proprio a me leggerlo. V’è inoltre da dire che quei dati e quei concetti avrei potuto in teoria leggerli molto tempo dopo o, come pure, avrei potuto non imbattermi mai in quel determinato testo, le coincidenze sulla persona e sui dati mi hanno lasciato profonda impressione circa una eventualità tanto improbabile da apparire più simigliante ad una sorta di precognizione. Ma procediamo.

 

Seneca
  1. La “Paraskene”, o preparazione culminante nel discorso della montagna;
  2. La “Katarsis”, ravvisabile nelle guarigioni miracolose;
  3. La “Teleiosis”, o illuminazione, che può ravvisarsi in un particolare evento di cui mi direte;
  4. La “Epiphaneia”, o visione dall’alto e totale, ravvisabile nella “Trasfigurazione”.

Il terzo punto e grado …

Noi (Tentiamo di dar risposta senza riuscirvi).
Seneca Mi farete confessione di quanto poco sapete di Cose Sacre. E’ la resurrezione di Lazzaro.

 

L’episodio della resurrezione di Lazzaro, riportato solo nel Vangelo di Giovanni, va inteso come testimonianza di Giovanni stesso, il quale racconta della sua esperienza dei tre giorni e mezzo vissuti in stato di morte apparente (“quella malattia non è per la morte”, dice Gesù riferendosi allo stato di catalessi di Lazzaro).

Seneca a tal proposito ci indusse a riflettere non soltanto sul fatto che tale episodio fosse riportato nel solo Vangelo di Giovanni, ma anche su una significativa coincidenza: Gv.11-3,4 “Le due sorelle mandarono a dirGli: “Vedi colui che tu ami è malato”. Gv.21-20,21 “Pietro, voltatosi, vide che li seguiva il discepolo che Gesù amava, quello che pure era adagiato durante la cena proprio vicino a Lui e aveva detto: “Signore chi è colui che ti tradisce?”.

In entrambi i passi si parla apparentemente di due persone diverse amate da Cristo. Ma, a ben riflettere, il termine “amare” vuole specificare qualcosa dal momento che, inteso nella accezione comune, non dovrebbero sussistere delle differenze tra l’amore per Giovanni e quello per gli altri discepoli. Il termine “amore” va dunque interpretato come “intesa”, naturalmente di carattere eminentemente iniziatico, tra Gesù e Lazzaro come tra Gesù e Giovanni. Ma qui sono da intendersi due diverse persone o una sola ? ((2. L’identità tra Giovanni ed il personaggio indicato col nome di Lazzaro nel suo stesso vangelo, è data per certa da Rudolph Steiner nelle considerazioni che lo scrittore riporta nel suo libro “Il Vangelo di Giovanni”)).

Ma vediamo ancora un episodio in cui può ravvisarsi il racconto di una morte apparente di un “iniziando”: Lc.7-11,17 “Il figlio della vedova di Naim”.

“In seguito andò in una città chiamata Naim. Lo accompagnavano i Suoi discepoli insieme ad una gran folla. Quando fu vicino alla porta della città, si imbatté in un morto che veniva portato al sepolcro: era l’unico figlio di una madre vedova. Molti abitanti della città erano con lei. Il Signore appena vide ebbe compassione e le disse: “Non piangere”. Poi accostatosi alla bara, la toccò, mentre i portatori si fermarono. Allora disse: “Giovinetto, telo dico Io, alzati!”. Il morto si levò a sedere e si mise a parlare. Ed Egli lo restituì a sua madre.”

Qui Seneca ha voluto mettere a confronto questo episodio con  quello relativo alla figlia di Giairo, già citato precedentemente in occasione dei nessi karmici. Due miracoli, due episodi in cui due giovani vengono resuscitati…

 

Seneca Quanti seppero qui e quanti lì (episodio della figlia di Giairo – N.d.A.-) ?
Noi In questo erano presenti numerose persone , nell’altro erano presenti sette persone in tutto (la bambina, i genitori, Cristo, i tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni).
Seneca Nel caso del giovinetto ci troviamo dinanzi ad un risveglio iniziatico apparentemente popolare ed in effetti “pubblicizzabile” e da “pubblicare” a gran voce ‘ché Egli, si doveva sapere, agiva sul corpo fisico. Nell’altro caso ci si imbatte in una penetrazione nell’io , totale, con passaggio e folgorazione del fisico, eterico ed astrale nella pregnanza dell’ io; non poteva essere che “seguito” da chi già sapeva di queste cose. Seguitemi ancora ((3. Anche l’uso della terminologia “figlio della vedova” non può che rafforzare la tesi del “risveglio iniziatico”. In tal guisa sono infatti indicati gli adepti alle pratiche iniziatiche altresì chiamati “figli di Iside”. Quest’ultima, nell’antichissima mitologia egizia, rimane “vedova”, e cioè priva del suo consorte-fratello Osiride ucciso e smembrato da Set – o Tifone come vollero chiamarlo i greci in seguito -)).
Nella “Trasfigurazione” il Cristo riserva agli “Specialissimi” (Pietro, Giacomo e Giovanni – N.d.A. -) di assistere alla Sua “Transcirconfondensazione” luminosa ma, eradicando l’astrale e l’eterico dall’ancor impreparato, pur se già nobilissimo, fisico, essi cadono nel sonno di morte. Nell’attimo però lo spirito conobbe, umano, il boato della Luce! Come seguirete dirò che si è accennato da me all’unico oggetto della ricerca ed ai più diversi soggetti. La sapiente vetusta antichità parlava del “Segno di Giona” e del “Segno di Salomone”: erano preparazioni iniziatiche di vario livello per possessori di varie capacità di dominio dell’eterico sul fisico. Culminavano il Segno di Giona nel sonno di morte di tre giorni e mezzo: l’altro nella ispirazione ed intuizione dell’atto.Si è detto da taluno del Cristo che da dentro porta fuori: vero! Ma a chi? Forse a chi non comprendeva che il Mistero del Golgota rappresentava la popolarizzata espressione del rito iniziatico del sonno di morte in cui il corpo astrale conosceva la sapienza di Verità? Ciò fu compiuto all’occhio di tutti; ma a quanti era rivolto?  ((4. Mt. 12-38,40: “Allora si rivolsero a Lui alcuni scribi e farisei dicendo: “Maestro vorremmo vedere da Te un segno”. Egli rispose loro: “Generazione cattiva e spergiura: va in cerca di un segno! Ma non le sarà dato altro segno che quello di Giona Profeta. Infatti come Giona rimase nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti, così il figlio dell’uomo rimarrà nel cuore della terra”.))
Così la QABBALLAH, che rappresenta la tradizione dei figli di Set, importata da Abramo dalla Caldea ed insegnata da Giuseppe ai sacerdoti della Grande Sinagoga, fu presa ed accettata dal Redentore e trasmessa a Giovanni, che la trascrisse così come detta dal Maestro in “APOCALUPTOI”: che è “rivelo cose nascoste”: tradurrei meglio “NON rivelo cose nascoste”!

 

Non si può non avvertire grande emozione nel constatare come attraverso differenti chiavi di interpretazione dei testi sacri le stesse parole, gli stessi concetti possono accendersi di più profondi quanto impensabili significati. Valga per tutti l’Apocalisse di Giovanni che in tal senso rappresenta forse l’esempio più immediato di testo “Rivelato”, e cioè “velato nuovamente” (come suggerisce René Guènon ), e quindi di difficilissima penetrazione. Dobbiamo dunque ritenere che la realtà dell’uomo sia composta anche da aspetti misteriosi e straordinari il cui panorama dà i brividi al semplice nostro affacciarci verso di esso, ed in ciò è probabile che la nostra cultura occidentale eserciti in concreto un’azione di ostacolo alle potenziali capacità di osservazione di cui potremmo disporre. Il panorama sconfinato siamo noi stessi … “Gnoti se auton”!

Ma per conoscere noi stessi occorre un atto riflesso; occorre cioè porre se stessi dinanzi a se stessi ed operare valutazioni e giudizi atti a combattere ed a vincere i condizionamenti, soprattutto morali e psicologici, che l’uomo inevitabilmente possiede a causa di fattori esterni come l’ambiente di vita, i tabù, la stessa religione, come pure fattori interni quali la cultura, il carattere, le propensioni, i vizi. Ma dirò di più: la frase “conosci te stesso” va intesa in senso biblico e più esattamente il “conoscere” andrebbe interpretato come “fecondare”; dunque “feconda te stesso”! E ciò perché è attraverso l’opera di fecondazione dell’io sui restanti tre inferiori corpi, fisico, eterico ed astrale, che avviene una vera e propria trasformazione dell’essere. L’opera sacra di trasformazione avviene attraverso l’inchino riflessivo di quanto più elevato in noi: l’io, che sui tre corpi inferiori opera la loro modificazione elevandoli e traendo a sua volta da questi forza per la propria crescita, con conseguente ampliamento della coscienza.

Ed ancora una volta troviamo tutto ciò simbolicamente rappresentato nel passo evangelico della “Lavanda dei piedi” in cui osserviamo Gesù inchinarsi verso i Suoi discepoli, di tanto più piccoli e lavar loro i piedi, dando così ed essi ed a noi un grandissimo insegnamento.

Gv.13-15,9 e 13-12,6: “Versò quindi dell’acqua nel catino ed incominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con un panno del quale si era cinto. Arriva dunque Simone Pietro. Gli disse: “Signore, tu mi lavi i piedi?” Gli rispose Gesù: “Ciò che io ti faccio, tu ora non lo sai; lo comprenderai in seguito”. Gli disse Pietro: “Non mi laverai i piedi. No, mai!” Gli rispose Gesù: “Se io non ti lavo non avrai parte con me”. (…)

Or quando ebbe lavato loro i piedi riprese il suo mantello, si rimise a sedere e disse loro: “Capite che cosa vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, poiché lo sono. Se dunque io, il Signore e Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io a voi.”

In proposito vi sono alcuni passi di Seneca che desidero riportare, richiamando il lettore ad interpretare l’ “Io Sono” come il “Cristo” (l’Io Sono Solare ed Universale), e l’ “io sono” come espressione spirituale di ogni uomo.((5. Es.3-14,15: “Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono”. E aggiunse: “Così dirai ai figli d’Israele: “Io Sono mi ha inviato da voi.” Il passo biblico andrebbe inteso nel senso seguente: “Dio disse a Mosè: “Io sono colui è l’ Io Sono”. E aggiunse: “Così dirai ai figli d’Israele: “L’ Io Sono mi ha inviato da voi.”))

 

Seneca Chi accoglie l’ Io Sono diviene capace col proprio “io” di modificare e generare le parti nuove dei tre corpi. Ma se ciò avviene, diviene parte dell’ “Io cosmico” riconoscendosi in fratellanza con gli altri “sé spirituali”, “uomini spirito”, “spiriti vitali”. Se l’ “io sono” agisce sui tre corpi trasforma l’astrale in “sé cosciente spirituale”: il “manas”, altresì detto “MANNA” nei tempi biblici. Trasforma il corpo eterico in “uomo spirito”, altresì detto “atma”, ed il fisico in “spirito vitale” o “Budhi”. Ciò avviene per gradi allorché l’ io si riflette sui tre corpi: ATTENTI: l’ io è superiore e deve riflettersi sugli inferiori, ma da cui riceve, vincendoli, dono di vita cosmica.Ma se il più ha da riflettersi sul meno, per ricevere, nel mutare il meno in più, come simbolizzare ciò in legge eterna? Il Cristo volle insegnarcelo e lavò i piedi ai discepoli. (…) Colui che riflette su sé il suo “io sono” muta i tre corpi ed induce nel trasmuto i fratelli “io sono” con il contagiarli di riflesso atto. Ma se si vuol porre l’ io ad inchinarsi verso i minori corpi, perché ciò “necesse” al trasmuto, allora si ha, non conoscendo, per assonanza celeste, prima da inginocchiarsi verso i fratelli più piccoli. Questo operare induce per “sumpathos” l’altro.

 

Questa operazione di trasformazione può apparire a chi legge alquanto complessa, ma non lo è in realtà. Seguire la legge divina può essere difficile a causa della componente umana e materiale, che, nella fase primaria prende il sopravvento, ma in definitiva è più semplice di quanto non si creda poiché non richiede necessariamente alcuna opera di comprensione intesa in senso razionale; la difficoltà vera per l’uomo in ultima analisi è il bersaglio da colpire: cioè se stesso o, se si preferisce, quella componente di sé che chiamiamo “egoismo”.

E’ questo il più alto ostacolo che si frappone al raggiungimento della meta ambita: dimenticare se stessi fino ad annullarsi per gli altri e quindi riconoscersi in Dio, così trovandoLo. Ed il massimo esempio, non dimentichiamolo, è sempre lo stesso: il Cristo!

Viene a questo punto da chiedersi perché l’uomo possegga questa componente egoistica se tante difficoltà gli crea al corretto procedere verso il Padre, disorientandolo di continuo.

In epoche a noi estremamente remote e per opera di forze divine, per noi inconcepibili, la terra fu oggetto del cosiddetto “influsso luciferico”((7. Naturalmente l’espressione non ha nulla a che vedere con il cosiddetto “angelo della perdizione” o Satana per il quale si richiama quanto già detto in precedenza.)).

Fu grazie a questa forza sovrannaturale che l’uomo acquisì la “egoità”, cioè la coscienza di essere individuo, o, se si preferisce, la coscienza di sé.

E’ a tutti nota la rappresentazione simbolica che di tale evento fa la Bibbia quando parla di Adamo ed Eva che, nel Giardino dell’Eden, mangiato che ebbero il frutto dell’ “albero del bene e del male”, pervennero alla autocoscienza (videro se stessi):

G.si 3-6,8: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, seducente per gli occhi ed attraente per aver successo; perciò prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò. Si aprirono allora gli occhi di ambedue e conobbero che erano nudi.”

Tale apprensione, che fu una tappa fondamentale dell’esistenza dell’uomo, comportò altresì l’aspetto egoistico come risvolto negativo dello stesso fenomeno. Per meglio dire: se da un canto l’uomo aveva imparato, grazie a tale influsso, a dire “io sono”, e cioè ad avere coscienza di se medesimo attraverso il pensiero riflesso su se stesso, di contro realizzava, per abnorme eccessiva crescita dell’ego, una lievitazione dell’antropocentrismo e dell’egocentrismo, con conseguente tendenza a far convergere verso di sé l’intero universo. (Valga per tutti l’esempio di come l’uomo abbia voluto ridurre Iddio a sua immagine e somiglianza, capovolgendo così i termini della questione).

L’uomo ha determinato in sé i troppo ben noti guasti costituiti dagli eccessi da cui ha finito col farsi dominare e di cui dovrà liberarsi: cupidigia, sfrenata ambizione, sete di potere, sete di prevalere, vanagloria, narcisismo, autocompiacimento, egoismo.

Ma ad un certo ben determinato momento storico, ribadisco tutt’altro che casuale, giunse il Cristo che col proprio insegnamento e il proprio sacrificio indicò all’uomo, nell’amore, la giusta via, lasciandolo pur sempre libero di percorrerla: “Io sono la Via, la Verità, la Vita”.

E qual è il primo passo di tale via se non proprio quello di abbattere i nostri vizi? Dunque dobbiamo seguire l’insegnamento da pochi compreso: “cacciare i mercanti dal tempio”, ché certamente Gesù mai si abbandonò realmente a moti d’ira verso coloro che in definitiva più d’ogni altro avrebbe dovuto amare, poiché appunto più sordi alla Voce ed al rispetto del Padre …

Ma nel simbolismo che di consueto Giovanni ci propone (vd. Il passo Gv. 2-13,22), il tempio non poteva che rappresentare il corpo fisico, quella parte cioè dell’essere che racchiude e custodisce il “Sancta Sanctorum”, ossia l’ Io immortale: la più sacra e nobile parte, immenso dono del Padre!

Così è necessario cacciare dal tempio (cioè dal corpo fisico) quei mercanti (i vizi) che ne avviliscono ed immiseriscono la sua importante missione, e ciò va fatto con estrema decisione e fermezza acchè essi non abbiano mai più a ricomparire.

Seguire la strada tracciata dal Cristo vuol dire amare incondizionatamente, poiché questa è l’unica arma per combattere ed abbattere l’egoismo portatore di dolore su questa terra: così la sofferenza del mondo potrà essere estirpata, vinta da un uomo nuovo, non più egoista ma assertore ed operatore d’amore!

Ovest La motivazione della sofferenza nel creato?
Seneca Noi siamo qui a cercare, ma prima troveremo più facile comprendere l’amore prima comprenderemo il soffrire. E poiché ancora lungo è il comprendere il primo, lunghissima è dunque la strada per il secondo.
Ovest Un’indicazione puoi darmela?
Seneca Ti ho dato i due termini di un’eguaglianza. A te il comporla in “pondere et mensura”.
Ovest E’ un’equazione dalla quale è rilevabile che in questo mondo è tanto poco l’amore quanto grande il dolore e viceversa?
Seneca Questo risolve l’equazione, forse un giorno parleremo dei passaggi matematici di essa.((8. “Il dolore regna nel mondo perché l’uomo non è un seguace dell’ordine divino, ma un ribelle seguace di satana. La causa è nell’uomo non in Dio”.– da “La Civiltà del Terzo Millennio – verso la nuova era dello Spirito” di Pietro Ubaldi – Cap. 3ˆ- Ed.ne 2ˆ- Edizioni mediterranee -))

 

A questo punto viene da pensare se nel graduale passaggio dal mondo di dolore ad un mondo d’amore non si verifichi, su scala cosmica, la fecondazione del corpo fisico ed inferiore della terra alla stessa stregua della fecondazione dei corpi inferiori dell’uomo da parte dell’ “io sono”, così da operare la trasmutazione. E forse, chissà, tale trasmutazione è già iniziata magari nello stesso momento in cui la terra ebbe a ricevere sul Golgota, in dono d’amore, il sangue sacrificale del Cristo.

Forse in quel magico momento ebbe avvio, noi ignorandolo, l’opera salvifica destinata a concludersi con la trasmutazione della terra fisica in “pianeta d’amore” e cioè in quella che nell’ “Apocalisse” Giovanni definisce la “Nuova Gerusalemme” dove i salvati di questa generazione troveranno accoglimento.

 

AP.SSE 21-1,5: “Poi vidi un cielo nuovo ed una terra nuova. Infatti, il cielo e la terra di prima erano scomparsi; neppure il mare c’era più. E vidi la Città Santa, la Nuova Gerusalemme, discesa dal cielo da presso Dio, preparata come una sposa adorna per il suo sposo. Ed udii dal trono una voce possente che disse:“Ecco la dimora di Dio con gli uomini e dimorerà con loro ed essi saranno Suo popolo ed Egli sarà il “Dio-con-loro”. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. Non vi sarà più morte né lutto e grida di dolore. Sì, le cose di prima sono passate”.

 

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