CAP VI

Amate cento e mille e diecimila volte più di quanto fate! Nulla sarà negato in Cielo a chi avrà amato in terra. Oh voi, fatevi bisacce che non invecchiano a contenere i tesori che raccolti in terra saranno perle in Cielo.

– L.A. SENECA –

La paura è certamente una condizione afflittiva comune a tutti gli uomini. Quante volte abbiamo temuto! Chi nel corso della propria esistenza non ha mai provato la fredda angosciosa sensazione che provoca la paura?

Di tante cose ha paura l’uomo: di morire, di vivere, di ammalarsi, di soffrire, di diventare povero o di perdere la ricchezza …

L’uomo è talmente fragile da temere financo i fantasmi creati dalla sua stessa immaginazione.

Così ancora l’uomo dei nostri tempi, che tanto orgogliosamente rende il suo tributo alla scienza o ai progressi della tecnologia, appare poi tanto vulnerabile allorché si perde nella miseria della superstizione.

Ancora oggi, forse mai come oggi, si parla del “diavolo”. Ne sentiamo parlare dalla Chiesa, sentiamo dotte prolusioni di altrettanto dotti demonologi, assistiamo perfino a fenomeni di culto demoniaco. I mezzi d’informazione poi finiscono col divenire cassa di risonanza con la conseguenza di accendere o alimentare nella gente morbosa curiosità o timore, entrambi caratterizzati dall’attrattiva per l’ignoto.

 

Seneca Il dubbio è dell’uomo e genera la sua inquietante figlia: la paura. Ma la paura, che è dell’uomo, il cui procedere è razionale, denuncia l’impotente realtà della ragione a separar le tenebre dalla Luce per ignorare le une e l’altra. Talora tutti foste assaliti dal dubbio della paura, dalla paura del dubbio, dal dubbio e dalla paura. Da essa la confusione e l’angoscia che il suo generatore, il male, potesse avere il sopravvento e dunque con esso vincervi il principe della notte: Satana!Brevemente: diavolo; perché diavolo etimologicamente? Esso deriva da “diaballo” che è scagliare al centro, contro, verso, poiché il diavolo è scagliatore al banco divino delle colpe, tant’è che il suo più noto appellativo è l’ “accusatore”.“Satana”, invece, è dall’ebraico “shatan”: sostantivo usato avverbialmente prima nei “Numeri XXII,22”: “… e l’inviato del Signore gli si pose nel cammino SHATAN”, cioè adversus, contro. E certo l’inviato di Dio non era Satana che non avrebbe fatto comunella con l’Eterno. Né alcun uomo di teologia o mistica o fede cita Satana o il demonio. Quest’ultimo termine “daimon” di cui potete dire.

Bene, alcuno in effetti parla del diavolo come poi lo si voglia chiamare, perché allora il mito d’esso e la conseguente paura? Io dirò, voi dedurrete. V’è da dire che dal TALMUD si ricava che i primi cabalisti ebraici (oh questa continua presenza della noiosa QABBALA, di cui parleremo un giorno), dal Talmud, dicevo, si evince che essi importarono dalla religione Zoroastriana da Babilonia il mito del dualismo Auramazda-Arimane, tradotto quest’ultimo “il malintenzionato”. Egli tormentava, nella accezione comune, il Dio della luce, sempre ponendolo in necessità di lotta per il trionfo del bene. Ma già i primi iniziati “mazdei” sapevano della realtà dei due princìpi contrapposti quali cause causate d’un principio ineffabile: tempi infiniti, l’insondabile unità. Il bagno di determinismo e la deturpazione che compì Mani sull’adolescente religione cristiana fece sì che la fonte del virgulto d’amore fosse avvelenata dalla presenza pesante del nuovo creato determinismo dualista: cosicché se non vi fosse stato tale apporto la grottesca figura del diavolo non disonorerebbe tutta la dogmatica cristiana come fantasma al cui cospetto il ridicolo si infastidisce per dover andare a braccetto con l’orrido. Del Satana delle tentazioni, ben diverso, parleremo allorché vi dirò dei quattro gradi dell’iniziazione di Cristo. Bene, sarebbe divertente, riportando tutto a parametri a noi consueti, se pensassimo alla battaglia dei ribelli da loro vinta. Adesso avremmo: Jeova gratificato di corna e unghioni ridotto all’umile stato di cattivo consigliere, il male sarebbe il bene; la virtù abiezione; la castità infamia, il perdono vigliaccheria; e di contro l’avarizia oculata parsimonia; l’intemperanza e la lussuria sintomo di buono stato di salute; l’orgoglio nobiltà d’animo; la frode sinonimo di brillante intelligenza. Ma sarebbe mai possibile ciò, e soprattutto è possibile credere a tali assurdità? Il bene ha vinto nella simbologia profonda e non elementare cui si riporta tale battaglia, poiché è l’ordine e l’armonia, l’archetipo e il divino. In una parola amor movens o più semplicemente il bene! La ragione prevedibile e necessaria per cui il male ha perduto sta nel suo contingente essere l’anarchia ed il disordine, il non amore o, più semplicemente, il male. Il male è però nell’universo e non è negabile come non lo è il freddo o l’ombra; ma viene il caldo ed il freddo cessa; giunge la luce e l’ombra scompare. Così il male in quanto negazione del bene è dunque astratta realtà negativa dell’unica reale.

Dare al negato realtà è negare l’autentico poiché l’autentico soltanto esistente permette nel suo non essere la creazione dell’idea della sua assenza.

Dare essenza al male è così negare il bene. Dare spazio all’ipotesi del diavolo è dare spazio al dualismo di due assoluti: bestemmia in religione, assurdità in filosofia. Sarebbe dare possibilità d’esistenza ad un diavolo che: vinto avrebbe potere a dispitto del vincitore; esiliato, sarebbe ovunque presente a compiere sua opera sui pure facenti parte della schiera dei vincenti; d’un suppliziato che infama il suo giudice contrariandolo e dandogli torto nella realtà, imperocchè non si pentirà mai; d’un vinto che riceve umani sacrifici proprio dal vincitore che, sereno, gli lascerebbe divorare i suoi figli. Il saggio, l’uomo di Dio, nega il demonio. Esso è creazione delirante della paura umana che vede l’essere ritenuto raziocinante tremare dei suoi fantasmi. Il male è una realtà poiché l’uomo lo vuole. E’ il non agire d’amore. La menzogna della vita quando, conoscendo la vita si mente ad essa non agendo per la vita. E la Vita disse Io sono unitamente alla Via ed alla Verità. Così la giustizia è agire nella vita per la Vita in non menzogna. E Dio vuole la giustizia ed una cosa non è giusta poiché Dio la vuole ma, come diceva S. Tommaso, “Dio la vuole perché è giusta”. Così, oh voi cercatori di certezze che non troverete se non alla luce di quell’altra logica ((1. Qui Seneca fa riferimento alla cosiddetta “logica dell’assoluto” che sarà esaminata appresso.)) : Dio non permette, non permette, non permette il male. Lascia che il bene, cioè Egli Stesso, stia lì in attesa d’essere colto o negato; cosicché l’uomo possa clamare sempre: io scelgo! Io scelgo! Io scelgo! Ecco che dunque il male c’è solo come mezzo di cui l’uomo possa avere fruizione acchè la sua scelta sia plena, mai esso ha azione di per sé senza volitiva volontà. Così l’uomo nella sua turpe ignoranza s’è fatto invece fruitore della nera figura che l’inquieta.

Gesù disse: “Il diavolo è mentitore come suo padre”. Ma se l’eterno immondo è eterno, fu generato dal Padre Eterno: costui suo padre? Mentitore? L’UOMO E’ IL MENTITORE PADRE DI SATANA. La sua mostruosa figura distende le sue immonde ali di pipistrello tra la terra ed il cielo a negare all’uomo che la vomitò gli spazi celesti e  ad annullargli la speranza del confidarsi alle promesse del sole ed alla serena tranquillità delle stelle. Ed è così che, nella paura del mostro, l’uomo lo genera ubbidendo all’aborto promosso che gli conclama il vincolo da lui imposto al Sommo Padre che, incatenato, glielo concede per assurda contraddizione alla Sua potenza. Ecco che l’uomo, nella paura di aprire scivolosi canali che lo precipitino nella palude ove affogano le abbiette aberrazioni di lui, si introduce volontariamente nella tenebrosa cripta del dubbio ove langue immoto tra i brandelli appiccicosi dell’orgia patibolare della sua ragione.

Cosa dunque fare? Sempre vi lasciai con speranza. Ordunque strappate nei vostri cuori al re dell’inferno la corona del terrore di cui l’uomo gli cinse il capo e piegatelo fino al piede della Croce, salvando e non aizzando i fratelli stretti nel morso delle spire del mostro. Guardate in faccia dubbio e paura e gridate: sempre e ovunque qual ben misera figura fai, mio vecchio Satana: la tua scienza, la stregoneria, è una beffa; le tue parole, i tuoi formulari, un insulto alla più povera delle menti. La tua sola scusante è di non esistere ; ma ove nelle menti ottuse dall’umano timore governi, mostri sempre i segni della tua essenza: il nulla, l’impotenza, il ridicolo, l’imbecillità e l’invidia. Così ancora gridiamo: le tenebre non esistono, solo la Luce esiste. Oh tu immondo parto dell’umano sconoscere: l’intenso grottesco che sprigioni offende financo i tuo avversari, gettando dileggio su chi ti dichiara vuoi per maledirti, vuoi per adorarti, vuoi per temerti, vuoi per servirti. Infine gridiamo dalla terra verso gli abissi del nostro cuore e rivolti alle altezze del Cielo: nei tuoi regni Satana entriamo a testa alta; neppure odiandoti, ché, se mai esistessi, più d’ogni altro ti sarebbe necessità della Luce del Santo Legno. Proclamare la inanità delle tenebre è certificare la gloria eterna della Luce. E ciò per la bontà di Dio che vive e regna nei secoli dei secoli.

 

Fin qui quanto dettoci da Seneca sull’argomento.

Tuttavia taluno, pur convinto della non ipotizzabilità di un dio anti-dio, di un dio del male uguale e contrapposto ad un dio del bene, potrà obbiettare che pure vi sono dei puntuali riferimenti nei Vangeli canonici circa casi di possessione diabolica, come pure di tentazioni ecc.

L’osservazione è corretta ed è pertanto opportuno tentare di darne esatta interpretazione.

Innanzitutto è da tener ben presente che taluni fenomeni descritti nel Vangelo, e considerati dai più come fenomeni di possessione diabolica, sono, al contrario, da intendersi come vere e proprie patologie nervose o della sfera psichica: mai più oggi diremmo dell’epilettico che è indemoniato, eppure, in epoca contemporanea a quella di Gesù, sintomi come le convulsioni, la schiuma dalla bocca, la perdita di conoscenza, venivano interpretati come segni inequivocabili della presenza di entità tenebrose al comando del diavolo.

Molto più rari e misteriosi i fenomeni riconducibili al mondo del soprasensibile, peraltro difficilmente distinguibili, nella sintomatologia, dai precedenti. Senza per questo ammettere l’esistenza, inaccettabile, di una divinità maligna, pure accade, in circostanze del tutto singolari, la possibile influenza nei confronti di taluni individui da parte di entità di basso grado evolutivo; entità ignoranti e menzognere rese irrequiete da brame terrene ancora non sopite e che non possono soddisfare. Tale condizione le spinge, infelici, verso luoghi e persone incarnate ad esse più vicine per affinità morale ponendo in essere una “vicinanza” pericolosa che può sfociare in una sorta di identificazione psichica.

Tali fenomeni sono ampiamente descritti da Allan Kardec, noto studioso e cultore di scienze spiritiche, nel suo libro intitolato “La possessione – i mezzi per combatterla secondo lo spiritismo -” nel quale l’autore riconduce tali fenomeni in tre grandi categorie: fenomeni di possessione, di soggiogazione e di fascinazione.

In questo campo appare sicuramente apprezzabile l’atteggiamento prudente assunto dalla Chiesa sia nell’interpretare che nel qualificare  il fenomeno per  il quale a volte fa ricorso al rito dell’esorcismo.

I fatti in questione inducevano spesso Gesù ad operare, ed il Suo intervento era “diversificato” a seconda dell’origine del “male” da cui era afflitto l’individuo, per la guarigione del quale talvolta necessitava l’apporto della fede del malato.

Tutto ciò diveniva poi materia di insegnamento per i discepoli ai quali il Maestro spiegava in disparte, e solo a loro, dal momento che non tutti sarebbero stati in grado di “comprendere” pienamente.

MC.4-33.34 : “Con molte parabole di questo genere annunciava loro la Parola, secondo che erano capaci di intenderla, e senza parabole non parlava loro; ma ai Suoi discepoli in privato poi spiegava ogni cosa”.

Ma ancora potrebbe obbiettarsi che pure Cristo subì gli “assalti di Satana”. Anche tali episodi non sono a caso riportati nei Vangeli, ma hanno una loro ben precisa ragion d’essere; sono da distinguersi nettamente da quelli citati dianzi in quanto attengono più direttamente alla “natura umana” di Gesù.

Si noti come gli evangelisti (Mt.4-1,11; Mc.1-12,14; Lc.4-1,12) pongano nello svolgimento cronologico del racconto le tentazioni di Gesù in momento ben determinato: prima delle predicazioni e delle opere; ciò poiché il racconto evangelico attiene ad una fase ancora preparatoria e non pubblica di Gesù. Essa viene tuttavia riferita dagli evangelisti poiché rappresenta un momento estremamente delicato ed importante della vita di nostro Signore. Egli avverte chiara la necessità della missione da svolgere per l’umanità ma ha ancora un turbine interiore: deve perciò interrogare se stesso e l’Eterno.

Si ritira allora nel deserto (che non è necessariamente quello di sabbia che ha solo un valore simbolico), si isola da tutto e da tutti, esclude ogni stimolo esterno, anche la semplice cura di provvedere a nutrirsi, e si pone con orecchio attento ad “ascoltare”.

La Sua meditazione è lunga ed estenuante, è in gioco il destino proprio e dell’umanità anche se, forse, non ne ha ancora piena consapevolezza. Il fisico si debilita, sopraffatto dallo spirito che cerca, interroga, investiga: “Chi sono io veramente? Ho grandissimo potere magnetico che potrei esercitare sulle folle per affascinarle, trascinarle…dominarle! Esse mi seguirebbero ovunque! Avrei il potere! Il potere…il potere sul mondo! Eppure ho fame. Il mio corpo si contorce…vorrei mangiare. Potrei soddisfare la fame come qualunque altra brama, potrei dire a quel sasso di trasformarsi in pane! Potrei esercitare i miei poteri superiori per soddisfare ogni desiderio…ogni passione. Perché non cedere? Perché il sacrificio? Ma io sono il figlio prediletto di Dio e devo inchinarmi alla Sua volontà. Io sono il figlio di Dio: Io sono Dio! Sono Dio…? Ma, lo sono veramente? Come averne assoluta certezza se non con una prova? Se mi lanciassi dal pinnacolo del tempio schiere di angeli mio soccorrerebbero affinché non mi accada nulla, non sta forse scritto: “Darà ordini per te ai Suoi angeli che ti sorreggano sulle braccia, perché non urti in qualche sasso il tuo piede?

Ma ad una ad una le tentazioni vengono respinte e vinte da Gesù che dimostra fede granitica. Allora il Cielo si squarcia dinanzi a Lui vincitore di se stesso, e si instaura il contatto diretto con la dimensione del soprasensibile e gli angeli scendono per servirLo!

E sono proprio le tentazioni, matrice dell’umana natura, che fanno di Gesù colui che “vince il mondo”, ed il simbolico Satana deve arretrare sconfitto!

Così ritengo vada interpretato il passo evangelico delle “tentazioni” di Matteo. Gesù ha infatti vinto i sensi (lo spirito ha sopraffatto il corpo) nel non cedere ad essi: la prima vittoria sulla materia umana; ha vinto la subdola tentazione dell’ambizione di governare il mondo: la seconda vittoria sull’orgoglio; ha infine vinto il dubbio; la terza vittoria della fede, la virtù del cuore traboccante d’amore.

Qui Satana non può che essere interpretato come simbolo dei “luccichii” del mondo che attirano e disorientano l’uomo tanto vulnerabile ad essi: “L’uomo è il mentitore padre di Satana!”

MC.7-14,23: “Quindi chiamata a sé di nuovo la folla, diceva loro: “Ascoltatemi tutti ed intendete! Non c’è nulla di esterno all’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo. Piuttosto sono le cose che escono dall’uomo quelle che contaminano l’uomo. Chi ha orecchi da intendere, intenda!” Quando poi fu entrato in casa, lontano dalla folla, i Suoi discepoli Lo interrogarono intorno a tale parabola. Egli disse loro: “Anche voi siete ancora privi di intelligenza? Non capite che tutto ciò che di esterno entra nell’uomo non può contaminarlo, giacché non entra nel suo cuore bensì nel ventre per finire poi nella fogna?” Così dichiarava puri tutti gli alimenti. Però diceva pure: “Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dall’interno, cioè dal cuore degli uomini, procedono i cattivi pensieri, le cupidigie, le malvagità, l’inganno, la lascivia, l’invidia, la bestemmia, la superbia e la stoltezza. Tutte queste cose malvagie procedono dall’interno e contaminano l’uomo.”.

Ma ciascuno ha le proprie prove poiché esse sono necessarie alla crescita spirituale. “Mutatis mutandis” e fatti i dovuti ed opportuni rapporti, dovremo dire che ogni uomo nell’esistenza terrena è soggetto a tentazioni a lui proporzionate: un uomo di grande levatura avrà quindi grandi tentazioni; tentazioni di minore entità avrà l’uomo di piccola levatura. Il raffronto con se stessi non può avvenire in via teorica: come potrò sapere, ad esempio, se sono veramente onesto se non avrò occasioni che mettano alla prova la mia capacità d’esserlo?

Così non sia il “diavolo tentatore” neanche una figura di “comodo” cui attribuire la responsabilità prima del nostro cattivo operato. Ma nessun timore tuttavia per l’uomo poiché ha Cristo come esempio, come sole che illumina: Lui ha vinto il mondo!

Ed è al mondo che ha vinto che dona consolazione e pace.

Coloro che sono di fede cattolica ed osservanti avranno innumeri volte avuto modo di sentire la parola “PACE”. Cosa esattamente si voglia intendere con tale termine forse non tutti sanno. Eppure quante volte durante il rito celebrativo della S. Messa abbiamo sentito parlare di pace. Certamente nessuno ha voluto mai intenderla come condizione contraria a quella di belligeranza o semplice ostilità anche se lo “scambiarsi un segno di pace” potrebbe indurre taluno a crederlo. E’ invece da intendersi come pace interiore. Ma tale condizione come e quando si raggiunge? Eppure quanto è ricercata dall’uomo che attraversa le tribolazioni della vita!

La comunicazione di Seneca sull’argomento è illuminante e ci permette di conoscere realmente il vero significato di pace intesa come condizione che attiene allo spirito e che è sua propria, tant’è che essa condizione travalica la contingente umana attualità appartenendo anche agli spiriti disincarnati.

 

Seneca La pace è il contrassegno dello spirito. Gli spiriti vengono sulla terra in pace, ma non per vivere in pace. Poiché la loro condizione nella esperienza della materialità è di lavoro e di ricerca della Verità che, conosciuta, non conoscono. Essa pace è la condizione allorché si conosce e ci si conforma al noto se il noto è noto come Verità. Ma essa già si perde nella nuova tappa prefissa: che solo il raggiungimento farà fautrice di pace.Sempre Cristo parla di pace. Va’ in pace; sia la pace; la mia pace; portatori di pace. Perché? Non certo Egli si riferì mai al sereno ozioso contemplarsi di chi si soddisfa di sé; bensì alla pace che è condizione individualizzante principe dello spirito cui agogna sempre. Né vi sia ora immagine dello spirito sempre inquieto in ricerca: tutt’altro. Mano a mano che si prosegue nella evoluzione si compiono passi che danno nel raggiungimento pace. E sempre, conquistata la pace, si cerca il nuovo: ché la pace viene dal conoscere, non perché essa è conoscere, ma poiché conoscere è conformarsi al noto, che se è verità è unica Verità. Così anche disincarnati abbiamo tappe di grande pace, e tappe di ricerca d’essa pur nella pregressa. Alla fine una sarà la pace: la Sua pace. Ma anche incarnati abbiamo possibilità di avere pace. Così ci lasciò la Sua pace. Ed anche nelle sofferenze può viversi in pace; così come nel godimento può non aversi. Essa è raggiungimento pur parziale di chi conquista la serena calma; essa è gradino semplice, difficile a chi confonde con la felicità: umana e lampo fugace.Dio ci creò nella pace; venimmo giù nella pace che non cancellò ma cancellammo! Così ancora nello scoprire la piccola verità di oggi troviamo una piccola pace: ché se trovata sarà seguita! Così i savi; altresì gli stulti! Dio è la Pace: chi si allontana è perché, autonomo, compie salto anarchico verso il Suo arbitrio e volere. Ché non v’è volere se non il Suo volere. Così come Egli Stesso che non vuole il bene se non perché è il bene. Ecco ancora, tra l’altro un argomento contro un re maligno che toglierebbe, raggiunta la pace, ad una sua creatura, essa (pace) senza suo volere.

La conoscenza ed il vivere dell’universo è pace: come e dove un malo sovrano detrattore d’essa che non è che armonia? E come la pace che è in Dio avrebbe generato il tormento se invece siamo noi soli a volontariamente negarci la pace col negarci Chi è Pace: Dio? Ancora vi dico: chi cerca la Verità trova se stesso, ma chi trova se stesso trova financo la pace poiché, si adatta alla forma dell’universo: infinita eterna pace. Così non allontanatevi ma essa ricercate postuma alla verità oggi piccola, domani grande.

La pace è sinonimo di giusta scelta il tormento di falsa. Ma non si creda che pace possa avere chi nulla ritiene importante. Chi si macera è nel giusto e ciò porta alla “metanoia” che non può che dar luce di vero foriero di pace.

 

E la pace funge da faro, da guida al retto procedere poiché certamente essa è assente in chi conduce l’esistenza secondo il proprio egoistico personale arbitrio. Né può disconoscersi che anche l’arbitrio è aspetto della “libertà” di cui l’uomo è stato fatto fruitore. Tuttavia il sentiero da seguire, il giusto sentiero, è solamente uno: è il sentiero del Padre!

Esso consiste in definitiva nel conformarsi quanto più possibile alla Sua parola e alle Sue leggi assolutamente perfette. Ed ecco che la pace che si prova, quando ciò avviene, è anche riscontro obbiettivo e certo di corretto operato. Ma attenzione: il confine con l’errore è segnato da una sottile linea di demarcazione. Il proposito di bene operare può non trovare riscontro in una corrispondente reale volontà di pratica attuazione, cosicché alla fine, si manca l’obbiettivo prefissato. Così dipende solo da noi e dalla nostra “volontà di volere” l’agire o meno in conformità alle Regole Divine.

 

Seneca Amore. Amore! Quanto semplice; quanto difficile! Un padre pose sulla tomba dell’amatissima figlia, che diciottenne spirò nel languore, queste parole a caratteri d’oro: “Maria optimam partem elegit quae non auferetur ab ea”. Neppure  mezza giornata dall’inumazione era trascorsa che un fulmine dai rami bifidi colpì fondendo alcune lettere e via scagliandole. Ecco la bella e colma di serena speranza iscrizione trasformarsi in orribile ineluttabile condanna: “MARIA IMAM PARTE ELEGIT VAE NON AUFERETUR AB EA”.- Maria scelse il cielo, che non le sarà negato. — Maria scelse l’abisso, maledetta sia, non le sarà negato. –

Cosa trarre da ciò?

Il racconto implica, per il mio piccolo dire, il rapporto esistente tra il libero arbitrio, la volontà d’amore e l’azione d’amore. (…) Anzitutto: libero arbitrio. La cosiddetta libertà è sentita dall’uomo come urgente necessità in eventuale assenza, pena il non sentire di vivere da uomo. Ma l’errore che si compie è quello di non considerare che tale concetto è espresso da incarnati, dunque nella condizione più vincolante. Così la libertà che si ritiene poter gestire, assoluta, è già per gli spiriti parziale; ché solo in Dio totale, completa ed infinita. Nell’esperienza della materialità confluiscono le limitazioni che, della libertà, porta la materia stessa. Ma allora la libertà fu non data all’uomo da Dio? Se Dio avesse dato alla propria creatura LA LIBERTA’ totale non avrebbe creato a Sua immagine e somiglianza ma solo avrebbe partenogeneticamente duplicato Se Stesso già tutto. Così aveva da donare libertà già limitata. Essa, ancor più costretta dalla materialità, si riduce alla libertà di scegliere il cammino dell’evoluzione. Contro dunque il parere grossolano di chi vede nella libertà il ricettacolo per la richiesta dei più disparati diritti, essa è la necessità quasi di conformarsi alla legge universale che, scelta liberamente, diviene faro per la prosecuzione lungo la via dell’evoluzione. Questo è sommario di quanto avrò poi da dirvi. Orbene, nella scelta della libertà concorre la volontà e la volontà di applicare la volontà: ben differenti cose tra loro. Così ho volontà d’agire, ma posso non trovare volontà di applicare tale prima volontà. Nell’amore il tutto segue identico cammino, ma qualcosa di particolarmente imprevedibile permea di sé tale virtù prima: la fede che folgora, riempiendone i contenuti, l’amore stesso, travalicando ogni ostacolo volitivo ed ogni claudicante libertà. Se dobbiamo considerare il rapporto con Dio è un argomento; se quello di Dio con gli uomini è un altro; se quello tra gli uomini un terzo.

Consideriamo quello che esiste tra gli uomini e forse sfioreremo il senso di quello con Dio. L’amore viene dato attraverso la “compassione”: questa è la regola più antica, così il Buddha! Il Cristo ci insegnò l’amore attraverso la “comprensione”: in ciò una delle chiavi interpretative del Golgota.

Per l’enorme individualismo che identifica ogni uomo, mal accettata viene la compassione che è più mirabile quale virtù teosofica che pragmatica. E questo poiché nella compassione si avverte da parte del ricevente l’inchino del donatore nel riverso d’amore. Ciò viene respinto dalla individuale coscienza del: io sono e, in quanto sono, vivo e basto alla mia vita. Altresì v’è da dire per la comprensione: essa è da ogni uomo accettata, anzi ricercata, poco avuta! La comprensione è la difficile raggiante sposa dell’amore. Se l’amore è comprensivo di quel trabocco di cui vi dissi (v. il cap. VII), la comprensione è completa e piena di quel portarsi al fratello, alla vita del fratello, alle gioie del fratello, ai dolori del fratello, sì da divenire il fratello.

Perché il Golgota? Poiché se Iddio avesse elargito dalle Sue Sommità amore all’uomo, Egli avrebbe rappresentato del Suo amore solo l’infinita compassione; donando Sé all’uomo, attraverso il Suo dilettissimo Figlio, entrò nella comprensione dell’uomo, Sua amatissima creatura. Così l’uomo non ebbe Dio elargitore munifico, ma Dio Padre e Fratello, comprensivo con l’uomo perché massima comprensione. Quando vi fu detto “Ciò che avrete fatto al minimo degli uomini”, non vi fu detto “lo avrete fatto per piacer Mio”, ma “lo avrete fatto a Me”, ché Io, voleva dire, vi comprendo poiché fui uomo nell’esprimere al più elevato grado la comprensione del Padre Mio per voi. (…)

Ma la nostra Maria? Ella rappresenta nella contesa per il miglior programma d’amore la risultanza dell’incontro tra la volontà non confortata dalla volontà della volontà e la realtà paragone delle parole. Il tutto, condito dalla serie di eventi che incontrano il cammino dell’uomo, può portare, ignaro il soggetto, dalla sublime aspettativa alla tremenda condanna. (…)

 

Colui quindi che vuole conformarsi al dettato divino deve tradurre nella azione quotidiana questo suo primo volere: “La vita è paragone delle parole”! Del resto l’evoluzione dello spirito avviene attraverso un apprendimento che non è teorico ma pratico: val poco riconoscere teoricamente valido l’amore per il fratello quando poi si è pronti in concreto a sopraffarlo.

Chi cerca di sopraffare il proprio simile a proprio vantaggio deve necessariamente aggredire, e l’aggressività è l’antitesi della mansuetudine. Dunque, una delle caratteristiche di colui che segue nei fatti la Parola di Dio è certamente la non aggressività e cioè la “mansuetudine”.

Infatti chi solitamente si conforma alle leggi divine, o si sforza fortemente di adeguarvisi, finisce col far sì che tale suo comportamento divenga abituale, direi istintivo, con conseguente mutamento di se stesso in individuo mansueto.

 

Seneca (Rivolgendosi ad un ospite). Conosci il termine “JAD”? N/Ovest conosce esser posto su una colonna sormontata da “.·.”.Questo termine, la cui iniziale appunto “J” si trova colì, vuol essere sostantivo che traduce: Mano di Dio. Abituato alla mano di Dio, dunque al Suo volere, dicesi “MANU SUETO” cioè mansueto: il più bel titolo ascrivibile a corona d’orgoglio umile umano. Dicevi ((1. L’entità si rivolge ad uno dei presenti che gli aveva in precedenza rivolto una domanda.)) di dignità, orgoglio ferito, frustrazione e disillusione. Acchè? Da chi? Dal capo-ufficio? Da altri paludati di scienza? La struttura umana di pensiero ed opere muore. (…) Bene, tu oggi da me ricevi titolo che non penserei dare ad alcuno dei miei: tu sei mansueto! Sic Dixi! Ciò ti faccia pensare quanto il peso del tuo abbassarti t’abbia innalzato: così ti dico financo del mio e Suo amore. Non voler appartenere ai padroni del mondo; sforzati di essere tra i suoi randagi. Così ancora: quando fossi abbagliato dalle corone del mondo, sappi dire a te stesso ciò che Seneca non ti INSEGNA, ma ti sussurra, umano, ad un orecchio. Ma io porto una tiara che porterò con me ancora dopo (…)

 

 

 

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