CAP I

Posso senz’altro affermare di avere avuto un’infanzia felice in una famiglia, serena, di tipo tradizionale e dalla quale ho ricevuto una educazione di tipo tradizionale. Ho sempre goduto ottima salute e non ho subìto traumi particolari.

Ho un bagaglio culturale di tipo classico e, sebbene avessi notato in me, negli anni verdissimi , una predilezione per le materie positive e scientifiche, purtuttavia subivo una misteriosa attrattiva per quelle filosofiche. Quando dovetti affrontarle, nel corso dei miei studi, alla istintiva riluttanza per il metodo arido di insegnamento abbinavo una strano interesse che andava al di là dell’autore argomento di studio, interesse che ritengo fosse determinato dalla soddisfazione che traevo dall’esercizio della logica nel far filosofia”.
Il tuffo mentale nel metafisico mi affascinava allora come adesso.

Sin dai primi anni della mia infanzia avvertivo fortissimo il senso ella caducità dell’uomo e delle cose del mondo. Il fatto stesso della mia crescita fisica mi faceva percepire vivissima la sensazione di come ogni cosa fosse in perenne movimento, in trasformazione, e quindi avesse un fine, che poi era, per altri versi, ancora una trasformazione … “panta rei”…, tutto scorre così dicevano gli antichi filosofi greci, ed io riscoprivo in quelle parole le mie considerazioni sia pur di fanciullo.

In quegli anni della mia infanzia dovevo registrare un’altra strana sensazione che avvertivo puntuale ogni anno allorché da Roma, dove vivevo, andavo con mia famiglia in Liguria per trascorrervi un periodo di ferie: la dimensione spazio.
“Ieri mi trovavo a Roma ed oggi sono qui in Liguria” , mi dicevo, “un mondo molto diverso dal primo: quale dei due è reale? Certamente quello in cui mi trovo in questo momento”, pensavo tra me. “Ma l’altro è pure reale? O è solo frutto della mia immaginazione? Per intanto attorno a me non vedo che questo…l’altro quindi, in relazione al mio punto di vista, non esiste, o, per lo meno, esiste solo come immagine mnemonica, non di più!

Queste sensazioni dell’infanzia, che presumo molti abbiano provato, ho continuato a portarmele dietro, e, sia pure in forma meno viva, continuo a provarle ancora oggi.

Col tempo però ho cominciato a pormi una serie di quesiti, che credo ciascun uomo almeno una volta si sia posto: il perché della nostra vita, l’effettiva esistenza di Dio, la nostra sorte post-mortem, la nostra provenienza ante-vitam. Dai miei diciotto anni in poi quei quesiti non solo sono andati focalizzandosi sempre più, ma sono divenuti una sorta di assillo psicologico al punto da portarmi a ricercare attraverso riflessioni personali risposte soddisfacenti, dal momento che quelle “preconfezionate” e “somministrate” dalla religione ufficiale e tradizionale mi apparivano inadeguate, a volte banali, a volte assolutamente inverosimili, per lo più dogmatiche e pertanto incomprensibili sotto il profilo razionale.

Oggi la crisi di determinati valori è dovuta ad una maggiore maturità, che induce l’uomo a non accontentarsi delle risposte ormai stantie della Chiesa.
Questa dovrebbe educare in modo più adeguato i suoi ministri affinché possano illuminare a loro volta le comunità dei cristiani.
Non dovrebbe lasciare ad una ristretta élite di religiosi le conoscenze più profonde che, se ancora difficilmente comprensibili ed accettabili ai più, potrebbero essere predicate e divulgate per gradi. Al contrario oggi dobbiamo registrare una certa disaffezione determinata dal sentire questo meraviglioso Dio lontano ed il Suo mediatore, la Chiesa, inadeguato, puerile, dogmatico e, troppo spesso, alimentatore di superstizione, di fanatismo e di idolatria.

Così anch’io, come molti, soffrivo di un vuoto che litanie e giaculatorie non riuscivano a colmare e percepivo sempre maggiore la lontananza da quel Dio munifico che nel donarmi la vita e la coscienza, non mi aveva donato gli strumenti per comprenderne il significato e lo scopo, abbandonandomi così in un oceano di dubbi, con una sola certezza: quella di dover morire.

Avevo, allora , la convinzione che solo la ragione ci era data perché il pensiero potesse in qualche modo ipotizzare alcune realtà superiori: era questo uno strumento ben misero, che permetteva tuttavia alcuni passi sicuri a fronte dei grandi voli possibili attraverso la fede, priva però di supporto razionale ed acritica.

Certo il tentativo di impegnare la mia modesta ragione in questioni già esplorate da giganti del pensiero, che nel corso della storia avevano posto pietre miliari nel campo della filosofia e della teologia, mi appariva alquanto presuntuoso, arduo, e forse utopistico; non di meno il problema mi apparteneva ed i mezzi a mia disposizione erano quelli che erano.

Per alcuni anni i problemi essenziali del nostro esistere avevano formato non di rado argomento di conversazione, in modo particolare con mia sorella Cristina e mio cugino Giuliano, con i quali avvertivo una particolare affinità di pensiero,. Conversazioni spesso iniziate la sera con la scusa di prendere un caffè insieme, potevano concludersi alle prime luce dell’alba con un “nulla di fatto”, anzi con la sola certezza che nessuna certezza era raggiungibile attraverso gli schemi logici usuali; eppure facevamo confessione, solo tra noi, di essere dotati tutto sommato di discrete capacità intellettive e di una cultura “medio-alta”, confessione che terminava puntualmente con commenti autoironici per la nostra irriducibile immodestia.

Il rapporto che ci legava e ci lega tuttora è molto singolare e certamente va al di là degli schemi consueti sorella-fratello o di cugino; è invece un rapporto che trova il suo cemento oltre che nell’affetto parentale in qualcosa di più: nella simpatia reciproca, nel piacere di scoprirsi affini nel modo di pensare, nel rapporto amichevole consistente nel gustare ognuno la compagnia degli altri due sempre ricca di spunti, di sferzanti giocose battute. Una somma difficilmente spiegabile di fattori che certamente ci unisce da sempre. Così l’occasione, forse direi meglio la scusa, di sorbire quel caffè ci dava l’opportunità di trascorrere momenti lieti in reciproca compagnia durante i quali si prescindeva dal tema di conversazione. Infatti, quale che fosse l’argomento del momento, grave o banale, era sempre interessante e gradevole.

Se dovessi tracciare un brevissimo profilo di noi tre dovrei definire mia sorella una donna dal temperamento forte, colta, dotata di facile parola accompagnata da chiarezza estrema di concetti, accattivante nell’esprimersi, generosa, molto attiva; mio cugino un uomo dotato di brillante intelligenza, di carattere eclettico, colto, facondo nel parlare e dotato di sense of humor; chi scrive dotato forse più di senso critico e di pungente ironia che di altro. Ispirandomi ad uno dei più elementari princìpi cristiani ometto di descrivere i nostri ben più gravi difetti.
Così la nostra esistenza scorreva in modo direi “normale”, affrontando cioè i problemi del “giorno per giorno” nel tentativo, non sempre riuscito, di evitare il più possibile i bocconi amari che la vita inesorabilmente ci propina.
Ma l’assillo degli interrogativi di fondo continuava, sordo, mai pago di tormentarci: ma perché ci troviamo su questa terra? Il nostro cammino si arresterà al colpo di falce della Signora velata di nero? E se no, come proseguirà? In quali condizioni?

L’unica irriducibile ed instancabile nel cercare di trovar risposta era mia sorella, divoratrice di libri e riviste concernenti il paranormale: libri di spiritismo, testimonianze di persone reduci da coma profondo irreversibile, esperienze fuori dal corpo, reincarnazione ed altro; insomma un ampio ventaglio letterario in cui cercare una traccia o qualcosa che potesse darci la “prova” della nostra sopravvivenza.
Così tuffava la propria mente in lettura valide ed in ciarpame, nella affannosa, annaspante e speranzosa ricerca di certezze; attività questa che negli ultimi anni era divenuta bersaglio di talune mie frecciate, tinte di un sarcasmo ormai velato di pessimismo. Infatti i risultati o le esperienze di quel tale centro metafisico o di tal’altro circolo di attività paranormali mi interessavano fino ad un certo punto, da momento che la mia natura positiva non si accontentava facilmente di esperienze fatte da altri e quindi inevitabilmente indirette e per me incontrollabili.
Io, dal canto mio, a dispetto delle grandi verità elargite dalla Chiesa, mi accontentavo delle piccole verità, o credute tali, conquistate attraverso una serie di riflessioni; verità che dovevano però, questa era la condizione da me posta, avere un fondamento razionale.

Così ero giunto all’esistenza di un Dio Creatore ed increato, dal momento che la realtà dell’universo intero non poteva giungere dal nulla. Ex nihilo nihil! Pertanto, escludendo la possibilità che il caos cieco, il disordine per eccellenza, potesse essere l’autore e l’organizzatore delle armonie della vita e del cosmo, della natura e delle sue leggi universali (l’ammetterlo peraltro sarebbe stata una contraddizione in termini), dovetti convenire che non era data altra possibilità che quella di un Dio Creatore, motore immobile, punto geometrico, unità da cui derivano tutti i numeri all’infinito.
Circa l’origine di questo Dio non potevo che ammettere che esistesse da sempre, senza un inizio e senza una fine, dunque un Dio eterno. Come? Fui costretto a d eliminare due delle dimensioni che ci limitano: lo spazio e il tempo.

Ma, a parte queste considerazioni, altre meno razionali mi portavano alla medesima conclusione. L’innata intuizione di un essere superiore in tutti gli uomini, anche i più primitivi, in qualunque tempo e sotto qualunque latitudine. Popoli sconosciuti tra loro e così distanti da poter escludere influenze reciproche avevano formulato e concepito una loro idea di Dio. Poteva questo Dio essere solo determinato dalla debolezza dell’uomo che in quanto tale cerca conforto in una entità sovrannaturale che lo protegga? Questa risposta mi appariva troppo semplicistica e superficiale, mentre trovavo affascinante l’intenso rapporto misterioso tra l’uomo e la Divinità in grandi civiltà antiche quali la egizia o l’indù o l’incaica o la cinese o l’ebraica.
Dunque, partendo dalla realtà ed accettando l’esistenza di Dio, dovevo convenire che l’intero creato non poteva essere frutto di un semplice capriccio, ma che vi fosse un fine e quindi una ragione profonda nel suo esistere. E se vi era una ragione, sia pure incomprensibile a tutta prima, a che l’universo fosse creato, vi era anche una ragione per l’uomo? Quanto era importante per Dio quel minuscolo essere tribolante su un granello di polvere cosmica? Una cosa era certa, che se un motivo c’era per creare il tutto, vi era anche per l’uomo che di questo tutto faceva e fa parte.
Ma allora, qual’era il fine ultimo della nostra esistenza? Perché le tribolazioni ed il dolore? Perché le sofferenze, la fame, le guerre?
Infiniti perché si accavallavano, ma a troppo pochi tentavo, e troppo spesso vanamente, di dar risposta.

Mia sorella, certamente la più tenace nella ricerca, aveva ceduto più di una volta all’invito di amici che avevano organizzato, oltre alla cena, una “seduta spiritica” con tanto di tavolino a tre gambe ecc. Ogni volta era tornata delusa da tali esperienze a causa della superficialità salottiera degli organizzatori, miranti solo a trascorrere una “serata diversa”, nel corso della quale si erano soltanto evidenziate doti di ciarlataneria di taluni allo scopo di divertire e di divertirsi a spese in genere del più ingenuo ed impressionabile dei partecipanti.
Tutto ciò sarebbe stato frustrante per qualsiasi persona, ma non per Cristina, che non si rassegnava e che continuava indomabile a cercare comunque.
Il futuro in effetti doveva riservare delle sorprese … piacevoli sorprese.

L’incontro con un amico, P., persona molto seria e stimato professionista, avvenuto nel 1984, doveva costituire un vero e proprio colpo di timone nella vita di tutti noi, anche se allora non potevamo immaginarlo neanche lontanamente.

Non avevo mai assistito, dico la verità ad una seduta spiritica e non sapevo bene cosa fosse il cosiddetto “tabellone”, ma vendo appreso, solo allora, di tali pratiche da parte del mio amico P., che preferiva non divulgare la cosa per ovvi motivi, chiesi di poter assistere ad una di queste.
Con la complicità interessatissima di mia sorella invitammo P. e la moglie a cena, con l’impegno che al termine avremmo effettuato una seduta.
Il tabellone altro non è che un cartoncino di forma rettangolare sulla cui superficie superiore sono impresse le lettere dell’alfabeto ed i numeri da 1 a 10. Il “medium”, o se si preferisce il sensitivo, poggiando le dita di una mano su un oggetto dalla base liscia, fa scorrere tale oggetto sulle lettere del tabellone, talché queste vadano a formare delle parole e quindi delle frasi, la cui provenienza appare estranea al medium stesso il quale funge da tramite con entità disincarnate.
Sulla serietà del mio amico non avevo alcun dubbio e, nell’accingermi ad assistere all’esperimento, ero più incuriosito dalla tecnica di questo che dall’eventuale contenuto della comunicazione.
Il risultato di quella seduta fu un messaggio dello “spirito guida” (una sorta di angelo custode) di P. Il contenuto implicante alte significazioni teologiche, mi apparve, seppur suggestivo, di difficile comprensione e mi lasciò quasi indifferente, tanto più che allora attribuivo alla ragione il rango di unico, sebbene limitato, strumento.
Mi fu risposto in quella circostanza che alla ragione talvolta, e questo era uno dei casi, occorreva sostituire l’intuizione o, per meglio dire, tentar di comprendere il rivelato attraverso l’intuizione, ché la ragione di certo, non avrebbe potuto tenere il passo.

Alcuni giorni dopo l’esperimento, come ormai di consuetudine, verso le tre del pomeriggio venne a trovarci mio cugino e, nella circostanza io e Cristina ci affettammo a metterlo a parte di quella recente esperienza.
La cosa, manco a dirlo, aprì un tema di discussione circa la validità di tali esperimenti. Giuliano in particolare si era dichiarato estremamente scettico al riguardo.
All’improvviso mia sorella, quasi noncurante di quanto mio cugino aveva sostenuto fino a quel momento, fece la proposta: “Perché non proviamo noi tre?” Io mi dichiarai immediatamente disposto ed insistetti anche perché mi divertiva osservare il modo di schermirsi di Giuliano percependo in lui una sorta di “vis grata puellae”, debole diniego più per dovere di coerenza che per profonda convinzione.
Così senza porre indugio, quasi a voler mettere tutti dinanzi al fatto compiuto, approntai un foglio di carta sul quale mi affrettai a scrivere le lettere dell’alfabeto ed i numeri e procurai il primo oggetto utile per farlo scorrere sul foglio: nientemeno che un portauovo in porcellana!
Ritenni quindi doveroso porre in cima al foglio un rosario.
Dopo aver capovolto il portauovo, ponemmo tutti e tre l’indice della mano destra sulla base ed aspettammo tentando di concentrarci. Dopo pochi istanti l’oggetto cominciò a muoversi lentamente senza una direzione precisa, quasi a voler studiare il terreno sul quale si trovava. Quindi cominciò a sostare su una prima lettera, poi su una seconda e così via fino a formare una parola: era una parola di senso compiuto! A questa seguirono altre parole fino a costituire una prima frase e poi una seconda col risultato finale di un messaggio breve ed estremamente elementare.
Al termine ci guardammo l’un l’altro con malcelato stupore. Cosa era successo? Avevamo avuto un contatto vero e proprio? Eravamo stati noi che suggestionatici avevamo inconsapevolmente “guidato” gli spostamenti del portauovo? Come era potuto accadere?

Ci lasciammo per accudire ai nostri impegni portandoci dietro un interrogativo più grande di quello che avevamo un’ora prima.

Ci separammo piuttosto elettrizzati per quanto era accaduto sentendoci un po’ esploratori un po’ apprendisti stregoni. Da quel momento, noi ignari, doveva avere inizio una lunga quanto fantastica avventura … la più importante della nostra vita!

Portammo con noi quelle sensazioni per tutto il pomeriggio ed alle dieci di sera di quello stesso giorno ci ritrovammo nuovamente insieme dinanzi a quel foglio frettolosamente compilato con lettere e numeri, per ripetere ancora una volta l’esperimento. Il risultato fu praticamente analogo, arricchito però questa volta di alcune domande timidamente poste da noi alla supposta entità comunicante, la quale aveva peraltro dato risposte coerenti e di senso logico.
Fummo presi nei giorni seguenti da una sorta di irreprimibile entusiasmo che ci indusse, oggi devo dire in modo puerile, a ripetere con frequenza quella esperienza che si rivelava ogni volta un po’ più ricca ed ogni volta un po’ più soddisfacente. Avevamo preso quasi sin dall’inizio l’abitudine di verbalizzare le domande che venivano poste e le risposte che ci venivano date, in modo da poter in qualunque momento successivo e con più calma riesaminare i contenuti delle comunicazioni.
Quello che in questa fase ci interessava di più era ottenere attraverso il tabellone dei riscontri, più precisamente avere delle notizie a noi sconosciute da poter successivamente verificare; questo avrebbe fugato in noi gran parte dei dubbi circa la possibilità che le comunicazioni potessero essere frutto del nostro subcosciente.
Certo era un’esperienza del tutto nuova che ci galvanizzava. Io, in particolare, non avevo mai assistito prima di allora ad esperimenti di questo genere, vuoi per scetticismo, vuoi per una sorta di irrazionale pavidità. Il contatto, sostenevo, posto che si riesca a stabilirlo, potrebbe solo sussistere con entità non elevate, ancora legate ad interessi terreni, e dunque non porterebbe alcun giovamento. Di contro in quali rischi si sarebbe incorsi nell’aprire incoscientemente quelle “misteriose porte di bronzo”? Sicuramente, pensavo, solo la scienza dà all’uomo delle certezze e dunque delle verità.
Ma quante di queste verità scientifiche nel corso della storia hanno trovato un’eclatante smentita da parte della stessa scienza?
E quale affidabilità può dunque attribuirsi ad una scienza che, progredendo, smentisce continuamente se stessa? Povero uomo illuso che tributa i massimi onori al suo stesso intelletto e a quel grumo di sangue e cellule che è il cervello, organo meraviglioso, del quale però non conosce quasi nulla!

Fu così che, titubanti e dubbiosi persino di noi stessi, osammo socchiudere quelle “porte di bronzo” che, “forse”, ci avrebbero dato accesso alla via del Vero.

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