Terza lapide

La Volontà

TERTIUM VOLUNTAS :

UT QUO ESSE VOLO PERVENIAM ,

QUA NON SUM TRANSIRE DEBEO ;

UT OMNIA HABEAM

NIHIL CUPERE DEBEO ;

UT AD UNUM PERVENIAM

NIHIL ESSE VOLERE DEBEO ;

QUIA QUOAM DEBILIS SUM

TUM FORTIS SUM

TRADUZIONE

TERZO PILASTRO È LA VOLONTÀ :

COSÌ AFFINCHÉ IO GIUNGA LÀ DOV’È IL MIO ESSERE

IO DEVO PASSARE ATTRAVERSO IL MIO NON ESSERE ;

AFFINCHÉ IO ABBIA POSSSESSO D’OGNI COSA

IO NON DEVO BRAMARE ALCUNA COSA ;

AFFINCHÉ IO DIVENGA L’UNO-TUTTO

DEVO VOLERE DIVENIRE IL NULLA ;

PERCHÉ È QUANDO SONO PRIVO DI VIGORE UMANO

CHE DAVVERO DIVENGO FORTE IN SPIRITO

Lo spirito, il Sé, ha completato il processo di discesa nel mondo, ma lo ha fatto tramite il piccolo sé.

Ha ottenuto ciò cui aspirava e che aveva chiesto con la preghiera: poter entrare nelle vicende umane e vivere la vita dell’uomo; entrare nella materialità e sperimentarla.

Tutto è tenebra adesso. Anche la coscienza si è ottusa. Il Sé si è – per così dire – calato nell’uomo, nel sé piccolo, è diventato uomo, fragile, mortale uomo!

La realtà che il sé/uomo trova è opprimente; si sente isolato perché ormai disconnesso dal Padre, o almeno così gli appare!

È incistato nella materia tanto che il piccolo sé umano non comunica con il Sé, operando liberamente nella dimensione materiale del mondo.

Il sé piccolo non possiede nulla, solo una bisaccia entro cui, non sappiamo, potrebbe avere soltanto mezzi idonei all’esperienza materiale che si è prefissato il Sé. La bisaccia potrebbe contenere intelligenza, furbizia, ambizione, forza di volontà, fascino, ricchezza o altro ancora. La bisaccia servirà di certo al sé piccolo per raccogliere esperienze di vita umana (dolorose e non) che non saranno disperse o consumate (la bisaccia potrà contenere solo moneta che non invecchia) ed il contenuto di essa potrà essere portato via da questo mondo, alla fine del viaggio, per essere consegnato al grande Sé. Tutto il resto (averi, ricchezze, onori, titoli, il corpo fisico e perfino il nome) sarà inesorabilmente abbandonato ed affidato al tempo cronologico del divenire che travolge ed annienta ogni cosa umana (Nel mito infatti Crono mangia i suoi figli).

Il terzo pilastro è la Volontà. Va premesso che il tema di fondo non espresso, ma che costituisce il presupposto è la libertà: libero lo spirito di iniziare il viaggio, libero di proseguire, libero di arrestarsi. Dunque, sempre possibile rimane per lui la scelta ed ogni scelta è il risultato di un atto volitivo.

In questa fase del “viaggio”, la volontà assume connotazione preminente, fondamentale. Si rende necessario volere superare le difficoltà e gli ostacoli che si presentano al Sé incarnato. È grazie al Cristo che il Sé grande ed il sé piccolo hanno di nuovo possibilità di colloquio, di comunicare cioè tra di loro; dunque è insieme che procedono e, potremmo dire, “Vogliono. È insieme che affrontano l’esperienza mondana e le difficoltà che questa contrappone.

Desidero a questo punto aggiungere una considerazione di ordine filosofico:

Se per Kant l’idea della “Cosa in Sé” ci giunge dal “Noumeno” che però inconoscibile rimane all’uomo contrariamente a quanto avviene per il “Fenomeno” (realtà esterna che però è “rappresentazione” umana non realtà oggettiva essendo l’uomo stesso con le sue categorie a crearla – Velo di Maya -), per Shopenauer il Noumeno è invece “conoscibile” sol che si penetri all’interno dell’umano sentire attraverso la Volontà; cioè occorre volere. Peraltro, la Volontà per Shopenauer è elemento insopprimibile che sottende ogni cosa, non solamente l’uomo. Ma per il grande filosofo essa Volontà si configura come una Forza libera e cieca, ossia come una sorta di energia incausata senza un perché e senza uno scopo che però costituisce motore perché è da considerare una forza che mi costringe a “volere”.

Grande intuizione quella dell’insigne filosofo, ma quest’ultima parte del pensiero di Shopenauer non è condivisibile a parere di chi scrive. La volontà qui è sì forza libera e apparentemente cieca, ma non priva di scopo, non priva di senso; non possiamo affermare che la Natura vuole perché vuole. In realtà “La Natura VUOLE Essere”! Questo è il concetto base sotteso a questa lapide, il segreto che spiega anche il dolore che pervade la natura (e che meglio vedremo nella 4^ lapide).

Ma come fa la natura a tornare a Dio per essere in unione con Lui? Solo attraverso quel “voluto” processo evolutivo che la permea e che coinvolge, alla fine, anche l’uomo…; gli uomini sono infatti parte della natura stessa, che, ormai pervenuta all’autocoscienza, è pronta al ricongiungimento con Lui (Dio vuole che essi tornino a Lui). Dal non-essere all’Essere: “Per dove non sono devo transitare”, afferma la scritta incisa sulla lapide. Dunque, potremmo immaginare l’uomo come aspetto della natura che, giunta all’apice del processo, acquisita l’autocoscienza, può transitare nell’Essere.

Ecco la ragione come si è detto: la Natura vuole Essere! Perciò faticosamente, lentamente, tormentosamente, persegue tale scopo.

La spinta insita nella natura è la “volontà di essere”, dunque di evolvere, fino all’autocoscienza e quindi fino all’uomo che in tal modo diverrebbe il punto di transito della natura: il passaggio dalla semplice coscienza all’autocoscienza che costituisce il primo vagito dell’Io Sono.

Dunque, la Voluntas è il carburante, anzi il motore, che spinge il creato tutto, con fatica, con dolore, ad evolvere sempre più. Diversamente avremmo avuto una natura viva sì, ma senza volontà, cristallizata, immobilizzata nella condizione in cui ciascun essere vivente si trova ad occupare – per cieca fatalità – ora e sempre, ora e da sempre! Così il filo d’erba resterà filo d’erba e tornerà ad essere tale all’infinito e così il leone; anzi sarebbe probabile la inesistenza della diversità della vita; non sussistendo alcuna scala evolutiva non si renderebbe necessaria infatti alcuna varietà nella natura che anzi perderebbe addirittura la ragione stessa della sua esistenza.

Affinchè Io Giunga Dove Voglio Essere per Dove Non Sono Devo Transitare.

Dove voglio giungere? Quale è la mia destinazione? È il Regno. Il Regno di mio padre che scelsi di lasciare un tempo per intraprendere il viaggio, viaggio indispensabile per “essere re”. Là nel Regno Io“voglio” essere. Ma per “rientrare da re colà dove vorrei essere”, devo transitare per la regione del non-essere ovverossia dove non sono. E poiché il Sé per sua stessa essenza è Essere, non potrà transitare nella regione del non-essere, ma lo farà attraverso il sé piccolo umano, sua creatura, suo “figlio”. Il sé, piccolo, vivrà la dimensione della materialità, ossia del non essere, e reitererà l’esperienza finché questa non venga assorbita, assimilata interamente dal grande Sé che così riceve dono di vita cosmica. Dunque, il sé piccolo deve morire, cioè si deve sacrificare per dar modo al Sé di “conoscere”, conoscere ciò che non sarebbe possibile per il Sé grande il quale, in quanto essente Sé non potrebbe attraversare la regione del non essere qual è il mondo della materia; ad esempio non potrebbe fare esperienze come “la morte”[1], ma non solo. È ben vero che tutto ha il Sé in Sé, ma tale processo è necessario alla sua conoscenza/coscienza dovendo il Sé prendere consapevolezza. Così dovremmo supporre che ogni incarnazione amplia la conoscenza e dunque la coscienza del grande Sé. La regione del non-essere è quella del sé piccolo, figlio ed espressione del Sé grande che ad ogni discesa terrena come sé, apprenderà, crescerà, imparerà proprio per il tramite e grazie ai suoi figli fragili, caduchi e mortali.

Ad ogni incarnazione anche gli involucri saranno perfezionati dal Sé che sperimentando impara. Il Buddha al momento dell’illuminazione ricordò tutte le sue incarnazioni pregresse.

Poi vi può essere un Altissimo Sé grande che si incarna non per necessità di sperimentare la regione del non-Essere, bensì per amore dell’umanità, ossia di tutti quei sé che, non riuscendo a comunicare con i loro rispettivi Sé, necessitano di una Guida, necessitano di Chi gli indichi la Via. Quale potrebbe essere il sé piccolo di Costui? Quale il dono di quest’ultimo al Sé grande padre suo? Potrebbe ad esempio dargli l’opportunità di allargare ed accrescere talmente tanto la Sua coscienza (qui intendo la coscienza del Sé grande) da identificarsi con la divinità stessa, con il Logos Stesso. Ed abbiamo così Dio che, come abbiamo detto più sopra, entra nella storia dell’uomo, nel dolore dell’uomo, nella tenebra dell’uomo ovvero nella regione del NON-SE’; ecco il perché Gesù di Nazareth, un piccolo sé evolutissimo in costante colloquio col suo grande Sé, sacrifica se stesso riuscendo con tale estremo sacrificio d’amore ad identificarsi, a divenire un tutt’uno con la parte più alta della divinità: il Logos, cioè Dio! Ecco la ragione per cui – essendo il Logos la parte di Dio che noi chiamiamo Figlio – Gesù è Figlio di Dio, vero uomo, vero Dio.

Affinchè Abbia Tuttonon Devo Bramare Nulla;

Anche questa frase non è di semplice soluzione.

Perché non dovrei desiderare? Chi mi impedisce e che cosa mi limita?

Nessuno mi impedisce, posso chiedere tutto e senza alcun limite salvo uno: se desidero e desidero per me, mi separo dall’Uno tutto. Concentro il mio desiderio su una parte (me stesso) che, inevitabilmente mi fa escludere il resto. Dunque, il desiderare mi allontana dall’Uno, da quell’Uno verso cui cerco e spero di ricongiungermi. Ed allora per avere tutto non devo desiderare nulla.

Qui basterebbe richiamare l’insegnamento del Buddha che ci dice che il “desiderio” è uno dei 3 veleni dell’uomo (desiderio, attaccamento, ignoranza).

Affinchè Giunga All’uno Devo Voler Annullarmi;

E giungiamo alla legge delle proporzioni inverse.

Se tutto, e intendo tutto, mi viene da Lui il Padre, Re, UNO, su che cosa poggia il mio valore, la mia boria? Non posso che riconoscere la mia pochezza, anzi prenderne coscienza e annullarmi. Finché rimarrà in me un residuo di EGO, ossia scorie del mio io piccolo, beh non potrò ricongiungermi all’Uno. Se voglio sentirmi “IO” devo separarmi, anzi direi meglio distinguermi, dall’Uno Tutto.

Sicché se ambisco essere tutto devo voler essere nulla o, per meglio dire, tendere ad annullarmi sempre. In altri termini quell’Ego che mi offre l’opportunità di individualizzarmi e dunque di distinguermi dal Tutto regalandomi la autocoscienza del Sé, deve essere superato ed anzi “ucciso” perché una volta espletata la sua funzione quell’ Ego mi farebbe solo da freno e da limite. Solo così potrò giungere a quell’Uno/Tutto cui bramo e spero di riunirmi.

Natuzza Evolo faceva miracoli e riceveva sofferenze, ma lei affermava che era Dio ad operare non era lei autrice dei miracoli, lei era solo un mezzo anzi lei si sentiva un verme della terra.

Ed infatti che cosa possediamo noi? Nulla! Tutto da Lui, Padre, a noi giunge sia in termini umani che sovraumani, sia da incarnati che da disincarnati. È pertanto importante prender coscienza di ciò, avere consapevolezza che vita, coscienza, forza, tutto ci giunge dall’Alto, ed è per tale ragione che l’energia d’amore che ci attraversa deve fluire e non arrestarsi, dunque noi dobbiamo farci mediatori dell’amore di Dio. Rammentiamo sempre “poco merito nell’amore, poca colpa nell’errore”.

Chi si abbassa sarà innalzato!

Perché Quando Sono Debole Allora Sono Forte.

Accettare l’altro, il fratello, è accettarne i limiti, è accettare tutto quanto fa da corollario al suo momento evolutivo. Così colui che è più evoluto deve avere la forza di sopportare i limiti altrui, anche quando ciò implica il subire le sue prevaricazioni, il subire la sua maggiore forza, umana forza, che lo schiaccia, fa a lui credere di avere un potere superiore e quindi di essere migliore. Direi che solo chi è più forte può sopportare, accettare senza moto di ribellione l’angheria altrui. Anzi il forte, colui cioè che è più avanti evolutivamente parlando, dovrebbe addirittura giustificarlo, o trovare nel comportamento offensivo i motivi di tale agire. Il piccolo, che all’occhio umano può apparire debole poiché soccombente nello scontro, sul piano sottile è di certo il più forte; egli infatti accetta l’altro come fratello anche quando questi lo ferisce.

Del resto, come potrei ricongiungermi all’Uno se non accetto il fratello che è proprio parte di quell’Uno? I fratelli sono porzioni di quel Me Stesso a cui tendo, non accettandoli non potrei ricongiungermi ad essi, ma se non mi ricongiungo non procedo verso l’Uno.

Fin qui una prima interpretazione che tuttavia va ampliata e completata

Vediamo allora le ultime due frasi senza separarle, ma cerchiamo di interpretarle in un unico senso:

Ut ad Unum perveniam nihil esse volere debeo; quia quam debilis sum tum fortis sum.

1) Affinché io divenga l’Uno-Tutto devo voler essere il nulla;

2) Perché è quando sono privo di vigore umano che davvero divengo forte in spirito.

Il progetto, la finalità, l’obbiettivo che mi sono prefisso è quello di divinizzarmi; questa è la premessa da cui partire per spiegarci il senso dello scritto e comprendere la lapide. Ed allora se voglio veramente divinizzarmi devo abbandonare compiutamente, definitivamente la regione dell’ombra, della materia (ossia del non-essere) e tutto ciò che essa conseguentemente comporta.

Dunque devo aspirare ad essere nulla, ossia non lasciare su di me traccia di materialità, ma diventare solo e soltanto Luce.

Questo fondamentale concetto è meglio specificato nella seconda parte dello scritto che, non a caso, inizia con la parola “perché” finalizzata a spiegare il senso che non deve rimanere oscuro.

Perché quando sono privo di vigore umano, quando cioè non possiedo forza fisica, forza intellettiva, forza razionale, combattività, vanagloria, desiderio di affermazione, di sopraffazione, istinto predatorio ecc. – in una parola “ego” piccolo umano -, ecco che rimane spazio, più spazio allo Spirito. E che forse lo Spirito non potrebbe prenderselo questo spazio se solo lo volesse? Ma certamente, senza dubbio alcuno! Lo Spirito è Dio e quindi è tutto Suo. Ma esso Spirito si arresta là ove volle per Sua autonoma, libera scelta e volere; e tale punto di arresto si chiama Libertà donata alla sua creatura: il sé piccolo, umano.

Ed allora quanto più io deliberatamente sceglierò di rinnegare me stesso come uomo, quanto più vorrò rinnegare la mia natura animale, (quella parte cioè di sé piccolo che vive ed opera in unità nel non-Sé) tanto maggiore sarà lo spazio per lo Spirito, tanto più consentirò ad Esso di parlarmi, di comunicare con me, anzi col sé piccolo, e Gli permetterò in tal modo di indirizzarmi e non perché mi viene imposto, ma in quanto così liberamente io ho scelto, o meglio, il mio sé (piccolo) ha scelto con conseguente arricchimento spirituale.

Ecco allora che sarò sempre più forte in Spirito: cosicché la mia debolezza umana, fisica, si compenserà, o meglio, si convertirà in forza spirituale. Pensiamo a Ghandi, non trovo esempio migliore.

La grande Anima, il Mahatma, aborrí ed abiurò la forza fisica e la violenza, crebbe immensamente in forza spirituale e con la potenza delle idee e della parola cambiò il corso della storia del suo popolo, immenso per numero, scongiurando così un enorme bagno di sangue, di lutti e dolore.

Ed inoltre se appena ci volgiamo alle beatitudini di evangelica memoria, non è forse scritto in Matteo che Egli disse: “Beati i poveri di spirito, perché loro è il Regno dei Cieli”?

Beato allora chi ha la forza di abbandonare il mondo, di abbandonare la cittadella della ragione e mortificarla per incamminarsi a pieno titolo, da cittadino, nello sconfinato Regno del Padre. Tanto meno spazio lascerò alla mia natura umana, e dunque materiale, tanto più spazio avrò lasciato allo Spirito: tanto più mi farò piccolo e sarò debole tanto più diverrò forte e pieno di Spirito.

Deve pertanto concludersi che tale opera avviene per il tramite dell’esperienza che il sé (piccolo) acquisisce vivendo nella materia, vivendo di materia; è una conquista che va a riempire la c.d. “bisaccia che non invecchia”, va cioè ad arricchire di Coscienza il sé e conseguentemente di Vita Cosmica il Sé.

  1. Infatti, come potrebbe morire un essere immortale? Dunque, come farà un essere immortale a sperimentare la morte? Potrà farlo solo immedesimandosi, immergendosi in una sua proiezione mortale: cioè un figlio umano; quello che noi chiamiamo semplicemente sé piccolo!

 

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