Sul Perdono

Costantemente, spesso quotidianamente, il nostro prossimo ci colpisce e ci ferisce. Nonostante ciò – il Cristo ci ha insegnato – dobbiamo sforzarci di accoglierlo ugualmente (Ama il tuo nemico).

Ma il punto nodale sul quale dovremmo insistere è che il cuore suggerisce talvolta un’Accoglienza spontanea e naturale; talvolta, invece, l’accoglienza è forzata e difficoltosa. In tal caso, per poter accogliere l’altro dovrò prima riuscire a perdonarlo. Quest’ultima proposizione non è corretta.

Perfino Gesù Cristo non perdonava per Sé e con Sé, ma … IN NOME DEL PADRE; l’Unico cui compete il perdono. (Disse sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”)

E’ difficile riuscire a spiegare questo sottile passaggio di consegne: non è mia facoltà, il perdonare, ma appartiene al Padre; a me è dato di perdonare un unico uomo al mondo: me stesso!

Io, dunque, non ho facoltà di perdonare il mio prossimo; posso solo accoglierlo.

Ed allora: cos’è l’Accoglienza? Non accoglienza attraverso il passaggio del Perdono – che non mi compete, e che compete soltanto al Padre – ma Accoglienza in sé e per sé, come unica fonte d’Amore che, se ho, ho; e se non ho, non ho (tutt’al più potrò sforzarmi di avere).

A tal fine debbo “dimenticare il male” che ci è stato inflitto e “ricordare” solo il bene ricevuto.

Secondo le guide:

Perché chi rivendica un diritto, pur giusto, di risarcimento del male patito non costruisce il Regno. Il c.d. perdono, come è usualmente inteso, non è un sentimento emozionale o filantropico: esso è L’UMILE RICONOSCIMENTO DELLA FRAGILITA’ UMANA CHE UNISCE OGNI UOMO, E PER CIO’ NECESSITA DELLA MISERICORDA DI DIO”.

Questa fragilità sta alla base del perdono – o meglio, della capacità di Accogliere che, quindi, è capacità di “DIMENTICARE” – e se io sono fragile e desidero permanere nell’accoglienza di Dio non potrò, né dovrò, interromperne il filo che mi congiunge a Lui attraverso l’Accoglienza.

Se io giudico – come sappiamo – ho dato una stima all’operato altrui: ma come potrò io che sono di natura ‘sì fragile da dovere ogni giorno accorgermi di fallare rovinosamente in Amore?

E tuttavia – ed è la più vergognosa inverecondia verso Dio – non pochi affermano che per potere perdonare bisogna ottenere giustizia.

(…)

Non, come è stato detto dalla cristica, non cristica invero, che tu potrai perdonare – sì – il fratello 70 volte 7, ma soltanto se ti avrà domandato perdono. Non è così. Il perdono, o meglio l’accogliere (e quindi il dimenticare i torti) è in sé e per sé un valore che non ammette condizioni.

Con ciò non si vuol dire che la Giustizia scema a questo punto. Tutt’altro!

Ma la Giustizia è Cosa di Dio. Ed essa implica il concetto della “RICONCILIAZIONE”.

La Riconciliazione implica – essa sì – il pentimento dell’offensore al fine di risarcire, nell’economia cosmica, lo strato da ricucire.

Ma, anche qui, l’Amore ha parte prìncipe nell’azione Universale d’Amore che è del Padre.

Infatti, il mio amare non dovrà soltanto essere accoglienza passiva; ma anche attiva. Dovrò cercare, cioè, di far ‘sì che l’offensore che mi ha arrecato danno comprenda, non tanto il mio danno (che anzi va dimenticato), ma il danno che egli ha arrecato a sé stesso.

ECCO L’ACTIO IN AMORE !”.

Chi è stato offeso non deve cercare la vendetta, che lo lega inesorabilmente all’offensore per legge karmica. La reazione determina una controreazione. Il male genera altro male, il dolore altro dolore. Così avviene nelle guerre tra le nazioni; così nelle faide familiari; così nei rapporti tra i singoli. Nessuno è più innocente. Ciascuno continua a punire l’ingiustizia dell’altro. Si incrementa in tal modo la divisione, la separazione. Ci si allontana dall’Uno. La giustizia deve essere affidata a Dio. Dice Ubaldi (“La Nuova civiltà del terzo millennio”): “Al conto individuale tra offensore ed offeso si sostituisce quello tra l’individuo e la Legge di Dio. L’uomo che rinunzia alla vendetta accogliendo il nemico non accetta di legarsi all’offensore con vincoli di odio, ma si affida alla Legge che, prima o poi, riequilibrerà l’ordine turbato: “Omnia in pondere et mensura posuit Deus”. Il male generato dall’offensore ricadrà soltanto su di lui.

Lo stesso concetto è insegnato agli albori del Cristianesimo. Scrive San Paolo (Lettera ai Romani, 12, precetti di vita cristiana): “….Non vi vendicate, carissimi, ma cedete il posto all’ira divina: sta scritto infatti: ” A me la vendetta, io darò ciò che spetta, dice il Signore. Se il tuo nemico ha fame, dagli del cibo; se ha sete, dagli da bere: facendo così, accumulerai carboni ardenti sul suo capo”. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene.

In conclusione: il perdono compete solo a Dio. L’uomo, consapevole della fragilità comune a tutti i fratelli, deve tentare di dimenticare il male ricevuto, accogliendo con amore colui che lo ha offeso. E con amore dovrà fargli comprendere che la sua condotta ha fatto del male anzitutto a lui stesso.

Alla vendetta per il torto ricevuto, al paradigma “Occhio per occhio, dente per dente” di biblica memoria, il cristianesimo ha sostituito il “perdono” insegnando all’umanità come fare un grande balzo in avanti sul piano morale e spirituale.

Troppo spesso sentiamo profferire da taluno: “Nonostante il male che mi ha fatto io perdono quell’uomo!” o, al contrario: “Non lo perdonerò mai!” ed ancora: “chiedo giustizia per mio figlio ucciso da quell’uomo!”. Affermazioni di tal fatta sono quasi sempre l’effetto di una pulsione istintiva ed emotiva… attengono alla ricerca di qualcosa che ripristini un equilibrio turbato, denunciano l’aspirazione in costoro ad una giustizia umana, che molto si avvicina alla vendetta, nella speranza che questa sia di linimento al dolore che si avverte in conseguenza del male ricevuto.

Ma ciò attiene a questioni sociologiche o politiche. Altro è scandagliare tale questione su di un piano animico.

Come si diceva, talvolta, sia pur di rado, abbiamo sentito taluno profferire : “Si, io di cuore, perdono l’assassino di mio padre!”, un gesto davvero nobile che però vuole significare: “Non voglio legarmi a costui col nutrire nei suoi confronti sentimenti di ostilità e di odio, anzi lo compatisco perché si è macchiato di un orrendo crimine che tanto dolore mi ha provocato”. Eppure dobbiamo affermare con decisione che il perdono non compete a nessun uomo! Esso presupporrebbe la capacità di discernere in senso assoluto il giusto dal non giusto, impensabile cosa, ‘ché solo in Dio è riposto tale potere.

Perfino Gesù, l’Unto, sulla croce non perdonava i suoi aguzzini, ma invocava per loro il perdono da parte del Padre; l’Unico cui esso compete.

E’ del tutto evidente quanto sia sottile il passaggio (non a me è concessa facoltà di perdonare, ma al Padre; ed Io in NOME del Padre perdono te, o, meglio chiedo al Padre di perdonarti); a me rimane la sola facoltà di perdonare un unico e solo uomo al mondo: me stesso!

E tale passo – come ci venne insegnato dalle Guide – è propedeutico al cammino iniziatico:

“(…) Per seguire l’influenza che giunge dall’Alto – ‘chè questo, in verità è il senso dell’ammaestramento iniziatico – bisogna però, prima – direte – avere perdonato il fratello. Non è così!

Bisogna prima riuscire in un còmpito ben più difficile ed aspro (cui il perdono del fratello è consequenza): bisogna prima PERDONARE SE’ STESSI.

Cosa è quest’affermazione che qualcuno potrebbe conoscere, ma che invero è ricoperta da nube di dubbio ed oscurità?

Incominciamo a dispiegare: un dispiegare che è soltanto socratico, maiuetico, e che poi dovrà essere proseguito da voi, da ciascuno di voi per sé stesso.

Io non posso farmi Discipulo se non mi scelgo per essere tale; ma non potrò scegliermi quale Discipulo se non mi ritengo degno d’esserlo; e non mi riterrò degno se non mi sarò PERDONATO!

Ma cosa vuol dire perdonarmi? Attenzione: non vuol dire essere indulgente con le mie colpe; non vuol dire neppure avere capito che non voglio più erroneamente agire. Significa capire che quella che mi ascrivo è una Colpa. Ed è Colpa grave! Perché Colpa in Amore. Fate tuttavia attenzione: potrei anche ingannare l’inconscio, ma non la coscienza. Potrei dire a me stesso: ho tradito l’amico; non lo farò più perché ne ha sofferto. Ancora non mi sarò perdonato.

Perdonarmi vuol dire analizzare me stesso guardandomi dentro; poi , vuol dire avere la chiarezza dell’azione che sto analizzando e definire se la colpa è dovuta a mia povertà di conoscenza, a mio disinteresse per l’altrui sorte, a mia sopravalutazione del mio essere rispetto all’altro, a mia violazione della “Rita” (normalità, anche – qui – come norma); ed il Diritto vostro saprà riassumerli nella Negligenza etc.[1]

Quando l’analisi sarà stata fatto bisognerà adottare un “metro” per misurare la colpa; ed esso metro – badate – sarà del tipo che vorrete scegliere; ma dovrà essere quello che, esaminata la colpa, e pronunciato il verdetto, dovrà darvi “acquietamento dell’anima”. Tale acquietamento non lo potrete raccontare alla ragione, ma soltanto all’Anima, al vostro IO Universaler, cioè. Se il Vostro Io si acquieterà, avrete colto nella giusta analisi della Colpa, e conseguentemente vi sarete perdonati perché avrei “Riconosciuto” (senza inganno con voi stessi) la mala actio in Amore. Tutto ciò, non per una colpa, ma per TUTTE LE VOSTRE COLPE DI TUTTA LA VOSTRA VITA. Soltanto dopo il PERDONO di voi a voi stessi, sarà possibile che vi scegliate per essere Discipuli. Quindi possiate divenire sacelli di accoglimento del Vero senza più Inquietudine dell’Anima che con le sue scosse della coscienza vi avrebbe impedito di scegliervi.(…)”.

Ma ulteriori considerazioni sono da fare in tema di “perdono”.

Se ho ricevuto un’offesa dal mio simile – non potendo io perdonarlo poiché, come abbiamo visto, il perdono compete solo al Padre Celeste – come dovrò agire?

Il comportamento più corretto sarà quello di “dimenticare” l’offesa subìta; sarà quello di cercare di far cadere nell’oblio della memoria e della coscienza il torto che mi fu inflitto. E’ cosa ben difficile a farsi invero! Sarà tuttavia un po’ meno difficile se cercherò di trovare giustificazioni all’operato del mio offensore. In tal modo abbandonerò il mio offensore alla giustizia divina e non mi legherò karmicamente a lui. Dirò dentro di me: “Non cerco vendetta, non cerco umana giustizia, lascio che sia Dio a giudicare quell’individuo che tanto dolore mi procurò”.

Di certo questo sarebbe il comportamento del buon cristiano o del pio, ma non dell’iniziato ai Misteri il quale potrà scegliere altro ed ancor più elevato comportamento: impedire che sul piano sottile si attui lo strappo provocato dalla cattiva azione. Sarebbe come prevenire il danno non per colui che lo subisce, ma in favore dell’economia del Cosmo. Se io, in qualità di vittima, rivolto a Dio avessi la forza di affermare convintamente, decisamente: “Signore, quel torto che mi fu inflitto non è tale per me, non lo considero un danno e dunque nessuna colpa va imputata all’offensore!”, bene, se così avessi la forza di agire, avrei impedito addirittura il prodursi dello strappo ed avrei agito santamente anche, e soprattutto, nei confronti del fratello offensore che nessun debito da riparare avrebbe innanzi alla Giustizia di Dio potendo affermare: “Non c’è colpa in quella mia azione poiché la mia vittima non ne fu ferita!”. Con tale comportamento avrei anticipato e prevenuto il “Giudizio divino” che, per ciò stesso, diventa superfluo essendo io stesso, quale danneggiato, il titolare del, per così dire, diritto risarcitorio. (Ecco spiegato il senso, spesso mal compreso, della frase del Maestro: ”A chi ti percuote porgi l’altra guancia”).

  1. Il reato è da definirsi “colposo” se è conseguenza di negligenza, imperizia o imprudenza dell’autore del fatto.

 

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