Fede, carità e umiltà

Sulla Fede

Essa va intesa come energia derivata dalla capacità di credere. Una forza che trasforma. Credere è dare cibo al corpo Sottile in cui, come sappiamo, albergano le emozioni, i sentimenti, ma anche la fantasia dell’individuo. “Credere” è in certo qual modo creare; così se credo creo, ma creo qualcosa che è tangibile eminentemente sul piano eterico, non su quello fisico cui siamo avvezzi; il “credere” è un po’ come lo sforzarsi di vedere nella nebbia, aguzzare cioè la vista. Questo esercizio, a lungo andare, mi renderà capace di cogliere una realtà che è diversa da quella fisica, sebbene io continui a percepire anche quest’ultima attraverso i consueti cinque sensi. Ma se “nutro” il corpo Sottile con la mia fede, esso potrà, a sua volta, dare sostentamento ed energia al corpo Causale. Se ciò avviene, quest’ultimo, a sua volta, sarà in grado di produrre effetti su vari piani della realtà, in questo caso anche su quello fisico.

Innumerevoli sono i richiami che ritroviamo nei Vangeli a tal proposito. Gesù invita i propri amati discepoli ad avere fede. “Basta che abbiate fede quanto un grano di senape – Egli dice loro – per poter dire alla montagna di spostarsi”.

Ma il credere è altresì da intendersi come “accoglienza”; così se io liberamente accoglierò il Cristo, il mio Io Sono – corroborato dall’inondo determinatosi dall’impulso Solare del Logos – sarà a sua volta in grado di trasformare i tre inferiori corpi mutando il corpo fisico in Spirito Vitale (altresì chiamato Budhi), il Sottile in Uomo Spirito (altresì detto Atma) il Causale in Sé Cosciente Spirituale (altresì chiamato Manas – la manna dei tempi biblici-).

Tommaso, il discepolo di Gesù, è ancor oggi, per tutti i credenti, il simbolo di coloro che hanno bisogno di “prove” fisiche, tangibili, per poter credere. La fisicità cui i c.d. razionalisti tribùtano ogni valenza del conoscere è così preponderante che solo attraverso i sensi fisici, e conseguenti prove, affermano di poter credere. Ma il dubbio troverebbe in loro ampio spazio anche di fronte al miracolo, inducendoli ad affermare che esso “deve” avere per certo una spiegazione razionale. Il motivo di ciò sta nel fatto che essi interpretano la realtà unicamente con i parametri cui sono avvezzi, quelli cioè fisico/razionali, parametri che, anche grazie al genio di Kant, abbiamo potuto constatare non essere i soli.

In quel giorno di ormai tanti secoli addietro, i discepoli erano riuniti in casa e tra loro era presente anche Tommaso, il discepolo che non aveva creduto a coloro che affermavano di aver visto Gesù risorto.

All’improvviso appare loro Gesù e invita Tommaso a toccare le Sue ferite chiedendogli di “non essere incredulo ma credente”. Tommaso cade in ginocchio ed esclama: “Mio Signore e mio Dio”!.

Che cosa era successo? Era Gesù in carne e ossa? Certamente no; Egli era apparso in casa all’improvviso nonostante la porta fosse rimasta chiusa. Allora? Chi avevano visto Tommaso e i suoi compagni, ma, soprattutto, che cosa Tommaso aveva “ritenuto” di toccare?

L’IO SONO Solare ed Universale, Unico Principio e Logos, che in comunione con il Sé di Gesù aveva operato fino a quel momento, si era rivolto al discepolo facendogli toccare non il corpo ma il Logos col comandargli “tocca e credi”. Cosi’ Cristo/Gesù donò a Tommaso “il credi” che fece a lui avvertire il Logos.

Dobbiamo sottolineare e ribadire un concetto fondamentale: Tommaso – al pari di ciò che avrebbe chiesto ognuno di noi – voleva toccare per avere la certezza e solo dopo credere. Accadde esattamente il contrario: a Tommaso fu donato il “credere” che gli permise di toccare!

Ma non dobbiamo ritenere che quanto detto appartenga ad epoche ormai remote, ad un passato in cui i protagonisti erano tanto diversi dagli uomini di oggi.

Dobbiamo convincerci che la strada è tracciata e l’Io Sono opera da tempo per attuare la trasformazione in tutti gli individui di questa generazione di spiriti.

Ancora oggi registriamo molteplici casi di guarigione scientificamente inspiegabili. Essi hanno relativa importanza se li consideriamo sul piano esclusivamente fisico; ne hanno immensa se li si considera sul piano intimo che guarda al profondo dell’anima di chi è toccato dal c.d. miracolo. Il malato che guarisce miracolosamente a Lourdes è innanzitutto uomo di fede; ha mosso cioè, attraverso la fede, quella energia che ha operato primariamente un cambiamento interno che, come un’eco, si è riflettuto poi sul piano fisico, determinando la guarigione del corpo. Costoro, i miracolati, non si sono chiesti “come” ciò potesse avvenire, lo hanno “creduto” possibile… ed è accaduto!

Ecco la ragione per la quale affermiamo che non può aversi fede senza attuare l’accoglienza; in questo caso accoglienza del Cristo/Logos.

Sulla Carità

Che cosa si deve intendere per “Carità”? Essa va concepita come sinonimo del “donarsi” e non solo – come spesso si crede – del “donare”. Troppo limitato sarebbe il concetto che, in quest’ultimo caso, rimarrebbe circoscritto al poter donare qualcosa solo se si possiede quel qualcosa. Dunque, non solo un “dare” materiale, anche se economicamente prezioso, ma anche un “facere”. Ciò implica come conseguenza immediata che nessuno, proprio nessuno, potrà sottrarsi dall’essere caritatevole, neanche l’uomo più povero: tutti possono essere, rectius han da essere, caritatevoli!

Carità si coniuga bene con il termine solidarietà.

Divento solidale con il mio prossimo, e quindi caritatevole, allorché riesco ad immedesimarmi in lui, a comprenderlo, ad accoglierlo come fratello, a sentirlo quasi come un altro me stesso.

Ricordiamoci che Dio guarda agli atti di carità come a un dovere dell’uomo ed alle omissioni di carità come ad un peccato.

Quando Gesù più volte raccomandava ai suoi discepoli: “amatevi gli uni gli altri”, intendeva sollecitarli ad essere vicendevolmente caritatevoli, ad essere pronti al reciproco soccorso, alla reciproca accoglienza, alla reciproca comprensione.

La Carità va dunque considerata come l’obbligo che scaturisce dal nostro sentire interiore, non certamente come una sorta di tassa che il dovere religioso ci impone.

A suggerirmi di agire caritatevolmente verso il fratello deve essere il cor senziente, quel cuore che -dona pace nel profondo e mi fa vibrare in armonia con il Tutto.

Fin qui la Carità dell’uomo verso il fratello; ma non possiamo esaurire l’argomento senza far cenno alla CARITA’ di Dio verso l’uomo. Il termine così inteso sembrerebbe riduttivo, ma se ci fermassimo solo un istante a pensare e riflettere, ci accorgeremmo quanto immenso sia il senso della parola… ! La Carità di Dio abbraccia la Sua munificenza: basti pensare all’immenso dono della coscienza individuale oltre che globale (l’Io Sono come Sé e l’Io Sono come parte del Tutto senziente Sé Tutto). Detta Virtù va ancora oltre poiché si estende al Perdono e dunque alla Misericordia; dobbiamo immaginarla nel senso più religiosamente tradizionale del termine, cioè come dono della Grazia, come l’ àncora di salvezza; è Essa che interviene in quella famosa quanto lugubre “Isola dei Morti”: la profferta, ancòra ed ancòra, di Dio alla creatura morta nello spirito affinché si rialzi dalla tomba e torni a nuova vita, vita spirituale, vita della coscienza. Non possiamo non concludere affermando che la Carità altro non è che uno dei tanti aspetti dell’Amore di Dio il Quale sembra “barare” con Se Medesimo in favore dell’umanità eludendo la Propria Legge! Ma del resto non è forse Egli Stesso la Legge? E non è forse “Amore” la Legge che sostiene il Cosmo Tutto?

Sull’ umiltà

Prendendo una moneta su cui era impressa l’effigie dell’imperatore romano e dopo averla osservata disse: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Questa la risposta che diede Gesù a chi gli chiese, in modo capzioso, se fosse giusto pagare i tributi a Roma. Ma tale risposta venne nel tempo mal interpretata ed è spesso citata a dare certificazione di una dicotomia falsa secondo cui le cose dell’uomo debbano essere dissociate da quelle di Dio. Un astuto sotterfugio interpretativo per escludere Dio dalle faccende umane! Possibile?

Il senso sottinteso delle parole di Gesù era in realtà: “date a Dio ciò che è di Dio: cioè Tutto! A Cesare ciò che è di Cesare: cioè Nulla!”

Perfino davanti al governatore della Galilea che lo interrogava Gesù disse temerariamente: “Non avresti alcun potere se non ti venisse da Dio!”.

I passi evangelici richiamati vogliono solo significare che noi siamo ben piccola cosa.

Superbia, vanagloria, boria, protervia son tutti aspetti del mostro egoico che ritroviamo descritto nella già richiamata leggenda di Narciso che, innamorato perdutamente di se stesso, si autodistrugge.

Di nulla siamo padroni, nulla è nostro, ma tutto è di Dio e tutto ci viene da Lui: la nostra salute, la nostra intelligenza, la nostra ricchezza, la stessa nostra vita. Che cosa rimane a noi? Rimane solamente la libertà “do-na-ta-ci” di scegliere tra l’ego ed il Tutto.

Paupertas, la povertà intesa come contrapposizione al ricco, opulento possesso di beni materiali, è sicuramente una voce che avvicina all’Assoluto ma non necessariamente alla condizione di umiltà. Essa condizione è efficace se mi spoglio volontariamente delle ricchezze dimostrando di non tenerne in conto e comunque assumendo comportamenti di generosità che denunciano un animo privo di avidità.

Di contro, si può essere poveri ma non umili. Gesù definisce “beati” i poveri di spirito, non i poveri di beni, sebbene verso questi ultimi nutra tenerezza ed inciti a dare loro soccorso.

Per paradosso, potremmo constatare che talvolta il povero è tutt’altro che umile; può anzi accadere che sia invece avido di possedere beni terreni ed imprechi contro il Cielo che ha negato incomprensibilmente, proprio a lui, ricchezze ed onori!

Se pur di rado, potremo altresì incontrare uomini di successo, o che occupino alte funzioni, che mantengano modi semplici senza ostentare albagia e boria per i doni che il destino volle offrir loro: intelligenza, successo, onori.

Parlando di povertà e di umiltà, il pensiero corre ad un gigante che molto ha da insegnarci: Francesco, il poverello d’Assisi, come talvolta viene chiamato. Ma costui era tutt’altro che “poverello”! Come molti sanno apparteneva ad una delle famiglie più ricche e note della opulenta Assisi.

Di grande cultura cattolica, ebbe una profonda trasformazione al ritorno dalla Terra Santa ove si era recato per difendere il Santo Sepolcro. Che cosa realmente accadde in quelle lontane terre ricche di storia e di suggestione non è dato di conoscere; ma forse quel suo ritorno da “illuminato” lascia sospettare che laggiù trovò una setta iniziatica da cui ricevette insegnamenti occulti (la Scuola Misteriosofica del Mar Morto).

Tornato ad Assisi rinnegò tutta la sua vita pregressa, la sua famiglia e le ricchezze che essa possedeva; indossò degli stracci e dedicò la sua esistenza a Dio rivitalizzando la Chiesa e la sua dottrina.

Possiamo per un solo istante immaginare Francesco povero ma non umile? No di certo. Egli seppe interpretare, col proprio agire, la coniugazione tra povertà ed umiltà in modo mirabile. Fu davvero esempio preclaro di ciò che va inteso come “operaio della vigna del Signore” e tutto ciò in serena letizia.

Possiamo affermare che l’umiltà, quella autentica, è specchio in negativo del peccato capitale della “superbia” e ci difende da questo esiziale vizio. Ma è altresì l’arma vincente contro l’autocompiacimento.

Guai alla voce di satana Panteo, re e gubernator mundi (le c.d forze arimaniche o luciferiche). I suoi aliti sono pieni di voluttuosi inviti. E la voce sua è talora e troppo spesso udibile sotto il nobile proponimento dell’amore per l’umanità. Ma essa parla multiformi lingue: all’artista di arte, al mistico di beate visioni, all’uomo d’azione di successi. Essa voce sale dall’abisso e via via si appesantisce delle dense volute dell’autocompiacimento.

………La voce del re Panteo tutti l’odono e la seguono, mai rifuggita a sufficienza: Dio guardi dal vero seguirla!” .

Fede, Carità, Umiltà, tre colonne a sorreggere l’edificio che dobbiamo tentare di costruire: ciascun uomo si adoperi ad innalzare prima e perfezionare poi il proprio tempio. Prendere coscienza di esso permette di sciogliere i nodi di quel cordame che ci lega alla colonna ragione! Qui non si invita certo a ripudiarla, bensì a superarla. Poiché se davvero si cerca, e con cuore sincero, sarà possibile trovare le chiavi per aprire le porte di bronzo che ci serrano nel dubbio. Sarà possibile riuscire a conoscere noi stessi – accedendo così ai piani ulteriori della coscienza – e penetrare i Misteri.

 

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