CAP V

Non v’è più saggio di chi porti un fratello ai piè di quella Croce per la quale ogni colpa si lava ed ogni virtù si invigorisce!

– L.A. SENECA –

Ricordo un mio conoscente, Roberto, un uomo semplice e di buon senso, onesto e dai profondi sentimenti d’affetto nei confronti della famiglia. Lo ricordo quando, incontratolo un giorno per caso, mi raccontò di un evento per lui sconvolgente: la perdita del suo primogenito undicenne spiratogli tra le braccia un mese prima, consumato da un’inesorabile forma di cancro.

Ricordo i suoi occhi perduti nel vuoto nel rievocare tanto dolore, ricordo la sua voce a tratti incrinata dalla commozione, poi il suo pianto ed il suo abbraccio in una ricerca disperata di conforto o solo di comprensione per la sua insopportabile condizione ….

Cosa dire ad un padre così profondamente provato? Cosa dire a chi è costretto a portare un tal carico di dolore? Quali parole possono essere pronunziate a consolare chi ha perduto un figlioletto? Ma esiste pur piccola consolazione per colui che sopporta ciò? Così tentai di balbettare qualcosa: “la necessità di farsi coraggio”, “il credere che la morte è un evento che colpisce solo il corpo fisico, che è un cambiamento di stato”, “che bisogna avere fede nella sopravvivenza dell’uomo, in un mondo superiore” …. Parole! Piccole misere parole a cercare di lenire anche solo un po’ tanta ferita. Così, ancora cercai di spiegargli il senso del dolore, cercai di spiegare, o meglio di ricordare, il dolore della Vergine Maria nel veder morire il proprio figlio innocente nel modo più atroce e più infamante.

Ci lasciammo, io amareggiato dalla sua condizione, lui col suo intatto carico di dolore, esacerbato ancor più dalla delusione che anch’io, chissà come quanti altri, non avevo saputo alleviare lo strazio della sua pena.

 

Due giorni dopo lo incontrai ancora una volta; era in un particolare stato di eccitazione e volle raccontarmi quanto aveva sognato la notte precedente chiedendomi poi spiegazioni. Cominciò col dirmi che il sogno era stato di estrema vivezza, tale da non essere distinguibile dalla realtà. Ed ecco il sogno: era notte e lui si era recato al cimitero per riprendersi il bambino. Era penetrato all’interno della cappella, aveva estratto la bara dal “fornetto”; aveva scoperchiato la cassa e quindi praticato un foro alla lastra di zinco; attraverso il foro aveva potuto vedere il volto del bambino che non presentava segni di disfacimento. Aveva quindi tirato fuori il corpicino esanime e lo aveva portato all’esterno, poi, dopo essersi seduto su di un gradino col bimbo in braccio, aveva cominciato a pregare Cristo perché glielo resuscitasse così come aveva fatto per altri in Palestina; poi sopraffatto dalla stanchezza, si era addormentato. Si era svegliato poco dopo perché qualcuno gli stava tirando da dietro la giacca: con grande emozione e stupore si era accorto che era il suo piccolo, vivo, che gli chiedeva di esser accompagnato a casa. Mentre erano però in macchina, sulla via del ritorno, il bimbo aveva chiesto di essere lasciato non proprio a casa, ma in un paesino vicino, nella abitazione ove in realtà era spirato tra le braccia del padre. Lì avrebbe atteso l’arrivo della mamma e del fratellino. Lungo il tragitto il figlioletto gli aveva raccontato che durante il suo “sonno” era stato in un posto bellissimo con tanti altri bambini e con un uomo buonissimo, dai lunghi capelli e con la barba, del tutto simile a Gesù. Giunti sul posto il bambino aveva preteso di essere lasciato in un vialetto esterno della casa (precisamente nel luogo ove poco prima di morire aveva detto al padre che lo sorreggeva: “zitto papà sto pescando … guarda che pesce grosso ho preso!”). il bambino aveva chiesto quindi al padre di andare a prendere la mamma, ma nel frattempo di lasciargli la pistola per difendersi da eventuali ladri. L’uomo era quindi andato a rilevare la propria moglie e l’altro figlioletto ma al suo ritorno non aveva più trovato il piccolo: nel posto ove poco prima lo aveva lasciato era rimasta solo la pistola.

Fin qui il racconto del sogno.

Particolarmente singolare era lo stato di agitazione dell’uomo, il quale al termine del racconto mi chiese cosa fosse giusto fare, poiché era sua intenzione andare quella stessa notte al cimitero per ripetere quanto accaduto in sogno.

Faticai non poco per sopire il suo stato di eccitazione ed indurlo a ragionare … tutto inutile! Bene, dissi tra me, pazzia per pazzia …

Così gli raccontai brevemente le mie esperienze di tabellone e mi feci promettere che quella stessa sera sarebbe venuto a casa mia per una seduta anziché andare al cimitero.

Ogni mia difficoltà si sciolse di colpo, l’uomo si aggrappò immediatamente a questo pallido barlume di speranza di contatto con l’aldilà ed accettò con entusiasmo.

 

Seneca Nunc vobis dico ave (Trad.: “Ora dito a tutti ave). (Rivolgendosi a Roberto). Cosa pesa sul tuo cuore provato?
Roberto Vorrei vedere mio figlio in sogno e parlargli.
Seneca Quid de lacu?(Trad.: “che mi sai dire del lago”?).
Roberto Il bambino prima di morire parlò di un lago ….
Seneca Cur? (Trad.: “Perché”?).
Roberto Non lo so.
Seneca Io so e dirò!
Roberto Il bambino amava pescare.
Seneca No. Dopo il discorso Egli mandò avanti i Suoi verso Cafarnao; ed essi per il lago di Tiberiade andarono. Ma dopo le tre del mattino, col vento che batteva di lato alla barca, essi ancora si trovavano al mezzo. Impauriti si sentirono abbandonati; quand’ecco una figura giungere camminando sull’acqua dalla nebbia: un fantasma! Così gridarono. Ma era il Cristo che loro si rivolse dicendo: “Sono Io; non abbiate timore; coraggio, sono Io”!Il lago di Tiberiade ebbe agli occhi il tuo bambino quando la notte del corpo già si stendeva su lui. Ma quello che era il crepuscolo di breve vita non gli diede angoscia. Tu non sai poiché già gli sfuggiva la vita, ma nella nebbia del transito giunse e gli disse: “Coraggio, non temere, sono Io”. E, la mano tesa, aggiunse: “Vieni amore, passiamo all’altra sponda”.Così il tuo piccolo si incamminò sereno per i litorali da cui alcuno ritorna. Dissi: “Senza Lui alcuna speranza”!Quel non ritorno è ciò che trasumana ogni umana speranza. Io non ho da dare segreta speranza di ritorno al padre che ha da sapere del non ritorno; ma ho da dire ancora: “Solo in Cristo è la speranza”! Poiché Egli ha vinto la morte! Così io so della tua e sua (N.d.A. della moglie di Roberto) disperazione che umana vi attanaglia il cuore. Ma ciò poiché non sapete! Se vedeste gioireste al vedere e non addolorereste chi non ha più da dolersi. Era un tempo nel quale si ignorava: non più dopo di lui. Ma, oh so, come può dirsi ad un padre speranzoso: “Tuo figlio che non ritornerà è colì ove la Luce è e sarà”? Ma la fede nella promessa del giorno e solo la fede in quella promessa! Io conosco l’umana sofferenza di chi sente dirsi “addio” da chi amato va lontano; ma conosco quel lontano che voi sconoscete. Ho da dirvi che esso lito ha confine ove incomincia il Regno! Così, mio amato, ti diranno i miei che hai solo “   l’ali tue” per congiungere d’un balzo “liti ‘sì lontani” ((1. Già in altre circostanze Seneca aveva citato il verso “31” del II Canto del “Purgatorio”. “vedi che sdegna li argomenti umani, sì che remo no vuol, né altro velo che l’ale sue tra liti si’ lontani”. (Dante qui si riferisce all’Angelo di Dio).)) : il tuo, ove ancora per breve soffri, e quello ove riluce la letizia di chi sta innanzi a Chi mai ci abbandona.

Ah meschina nostra infermità di fede! Diranno i miei che sdegnando ogni dolore umano la fede “non vuol remo né altro velo”!

Non ti crucciare ma un po’ acquietati. So che vorresti parlare a chi non parla più il linguaggio umano: sappi che Egli parla ai cuori più nell’ora del dolore e più a chi porta il Suo Legno: così te fortunato, chè se i miei e la mia pupilla (N.d.A.; si riferisce a tale Marisa presente alla seduta) portano insieme una scheggia del Legno, tu Lo sollevi dalla pena reggendo di quella Sua Croce un intero braccio! Quanto sorriso e grande amore dal Suo volto insanguinato a chi Gli terse il viso nella pena; e, oh tu ignaro Suo consolatore, quanto ancor più sorriso ed amore a chi a Lui porta sulle spalle, per dono del Padre, un intero braccio! Così vorrei vedessi che chi ti fu affidato per breve tempo ne gioirebbe! Io ancora a te. Solo in quel volto (N.d.A. si riferisce all’immagine della Sindone) la speranza che acquieta dall’angoscia, solo in quel volto la risposta dei perché che pesano sui cuori degli uomini.

Ora domanda.

Roberto Che cosa significa il sogno della notte scorsa? Forse sono folle?
Seneca En oniro fos esti en kefale tanatos … (Trad.: “Nel sogno è la luce, nella ragione la morte”). Solo la mente di chi è folle può conoscere Dio. Solo essa! Avete tutti a divenire folli nella “metanoia” (N.d.A. “cambiamento della mente”) che muta la vita! Tu, mio amato, hai visto in sogno il vero. Tuo figlio non ha nell’anima decomposizione alcuna poiché solo se avrete occhi di bimbo come egli accederete al Regno; il tuo sogno è vero anche nell’invocazione al Cristo, che a lui ha donato resurrezione eterna; è vero nell’aver te chiamato per narrarti dell’uomo che l’ama e che fu con lui fin dal momento in cui l’accompagnò sulle acque del lago; vero in quella pistola che volle ad uccidere il ladro che toglie la fede: la ragione; ed in fine vero nell’aver trovato solo la pistola, cioè l’arma che vi lascia per uccidere la ragione e disperazione senza le quali potrete nella fede vederlo accanto al Nazareno dalla barba incolta ma dal sorriso rasserenante!Così sta a te condurre te e lei (N.d.A. la moglie di Roberto) alla fede che vi darà pace nella ferma e sicura speranza della salvezza del vostro figliolo amato.

 

Non è dato sapere, né lo si potrebbe, quanto efficace fu l’effetto delle parole di Seneca sull’animo di Roberto, un fatto è certo, che questi volle di nuovo tornare ad ascoltarle qualche giorno dopo unitamente alla moglie.

 

Seneca Hic sum et manebo! Ave omnibus, cur rursus? Solum dicendum est: “On Theoi filousin apothneskei neòs …” (Trad.: “Sono qui a voi e permarrò! Ave a tutti, perché di nuovo? Vi è solo da dire: “Gli Dei amano chi muore giovane …”).Credo che in tale frase qualcuno volle spiegare tutto a voi. Perché dunque ancora chiedersi: perché? Ciò che è disegno di Dio è perfetto ed imperscrutabile: perché dunque chiedersi: perché? Se la Grazia divina ci dona una presenza che accanto a noi compie una missione; quando essa ha avuto compimento e la presenza ha da essere chiamata al Regno: perché chiedersi: perché? Se fu pure il meglio delle nostre viscere a generare la carne di chi aveva già purezza; quando essa carne fu corrosa dal male acchè lo spirito tornasse libero alla Luce: perché chiedersi: perché? E se la mente ha capienza minima da non poter comprendere il dono particolare di Cristo che su voi poggia un braccio della Sua Croce a riposare un po’: perché ostinarsi a chiedere: perché? E se la ferma e sicura speranza nelle parole del Cristo, senza cui non vi è alcuna speranza, ci deve dare sicurezza di futuro reincontro per le vie del Cielo: perché accanirsi a chiedersi: perché?
Ancora ho da dire il detto: “nessuna speranza senza di Lui”. Cristo è la chiave che apre alla pace il cuore dell’uomo, perché parlò ad ogni uomo. Cristo! Ed io nella debolezza della mia fede che ancora mi incatena prego Lui l’Altissimo di infondere nei nostri cuori la favella che acquieta e consola; di darvi lume per il quale capire che solo Lui può dare acqua di vita ai vostri animi assetati di verità; di darvi conoscenza che Lui è il vero pane per la vostra fame di consolazione, il dirvi che Lui è il solo sorriso rasserenante per il cuore ammalato di tristezza!Sono parole semplici che mai potranno spiegare alcun perché; sono parole povere agli spiriti gonfi di ragione; sono parole inutili a chi si ostina nella disperazione che non dà frutti. Ma sono parole che rinnovano la speranza a chi vive e crede in Lui; ma sono parole che scendono al cuore come musica dolce a chi è povero di umana superba saggezza; ma sono parole di certezza a chi sostituisce al pianto la preghiera: “Signore, sia fatto il tuo volere”.

 

Come ho dianzi detto non è dato scrutare l’animo nel profondo, tuttavia posso affermare con sufficiente sicurezza che sia Roberto che la moglie trassero dalle parole di Seneca gran conforto (forse dovrei dire che nel caso di specie Seneca fu strumento di Chi volle rasserenare i loro animi).

Certo il dolore non diminuì, ma circa un mese dopo tale esperienza Roberto mi apparve acquietato nella sua pena e sereno nel proprio intimo.

 

Giunse così il giorno in cui la nostra Guida volle illuminarci su un passo evangelico troppo spesso mal interpretato, la cui corretta conoscenza venne definita “essenziale” da Seneca: la cena di Gesù presso la casa di Simon fariseo, altrimenti noto come l’incontro con la peccatrice di Magdala (Lc. 7-36,50).

“Un fariseo lo invitò a mangiare con lui, Egli entrò in casa sua e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto d’olio profumato; fermatasi dietro di Lui, si rannicchiò ai Suoi piedi e cominciò a bagnarli di lacrime; poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. Vedendo questo il fariseo che Lo aveva invitato disse fra sé: “Se costui fosse un profeta capirebbe chi è questa donna che lo tocca: è una peccatrice”. Gesù allora disse: “Simone ho una cosa da dirti”. Egli rispose: ”Maestro di’ pure”. “un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquanta denari, l’altro cinquecento. Non avendo essi la possibilità di restituire, condonò il debito a tutt’e due. Chi di loro gli sarà più riconoscente?”  Simone rispose: “Suppongo quello a cui ha condonato di più”. Gesù gli disse: “Hai giudicato bene”. Poi volgendosi verso la donna disse a Simone: “Vedi questa donna? Sono venuto in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per lavare i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e con i capelli li ha asciugati. Tu non mi hai dato il bacio, lei invece da quando sono qui non ha ancora smesso di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, lei invece mi ha cosparso di profumo i piedi. Perciò ti dico: i suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato. Colui invece al quale si perdona poco, ama poco”. Poi disse a lei: “Ti sono perdonati i tuoi peccati”.

 

Il passo evangelico in effetti può ingenerare inesatta comprensione anche nel lettore più attento, facendolo giungere a conclusione errata. Il passo è invece da considerare fondamentale per la comprensione di ciò che la nostra Guida ebbe a definire la “Coscienza di conoscenza”, cioè uno dei tre cardini necessari a percorrere la strada tracciata dal Cristo. In sintesi quella capacità, invero assai rara, di riconoscersi molte mancanze, e tale capacità di “scoprirsene molte” la si ha, la si ottiene, solo amando molto.

In altre parole, colui che è ancora fortemente condizionato da pulsioni egoistiche (e mi chiedo chi non lo è troppo) ha per così dire la tendenza a “sentirsi a posto”, ad essere cioè convinto, in perfetta buona fede magari, di essere scevro da grosse colpe.

Ma se noi guardiamo al cosiddetto peccato non solo come commissione di una cattiva azione verso il nostro prossimo, ma riusciamo anche ad inquadrarlo già nella “semplice” omissione d’amore verso il prossimo stesso, allora, solo amando, potremo scoprire in noi le nostre manchevolezze o errori, e tanti più ne scopriremo quanto maggiore sarà la nostra capacità d’amare.

Ma esaminiamo quanto accennatoci dalla nostra Guida.

 

Seneca Se comprenderete ciò che il Rabbi di Galilea volle dire a Simone avrete compreso  ciò che, non compreso, volle dire all’umanità. (…). Dunque la conoscenza sia prima coscienza d’amore. Quella donna elencò i suoi peccati, molti, perché molto amò, ma unitamente non smetteva di lavare col pianto i Suoi piedi e di asciugarli con i capelli e di spargere profumo: l’azione che emenda! (…). La peccatrice fu mossa da fede che, generata da amore, amore divenne forte. E così nella fede per la remissione prevenne la remissione stessa, già ricolmando di gratitudine il suo perdonante. Gratitudine che fu grande poiché grande, per i motivi dettivi, era il suo aver peccato. Ma esso aver peccato era ritenuto grande per grande amore; così grande era per pura fede la gratitudine avanti già manifestata; come grande fu la gratitudine di chi ebbe rimesso il debito di cinquecento denari. (…)

 

E’ una profonda verità anche se non di semplicissima comprensione, anche se più da intuire che da capire; semplice e di immediata comprensione è invece il secondo cardine essenziale al seguire il percorso indicato da Cristo: “L’azione d’amore”.

“La vita è paragone delle parole”. Così più volte la nostra Guida ci ha rammentato. L’amore per così dire “in teoria”, val poco o nulla, ciò che conta massimamente è l’ “actio in amore”.

A che varrebbe infatti il profferire belle parole, pronunciare la più armoniosa poesia o la più seducente prosa dai contenuti magari altamente morali e profondi, senza che a queste tenga dietro un consequenziale comportamento?

Così al riguardo ci parlò Seneca in una comunicazione del 22 dicembre 1985.

 

Seneca Sappiate che la vita è paragone delle parole!Nei trenta chilometri da Gerusalemme a Gerico, Levita e Sacerdote dimostrarono ottime parole e conoscenza, ma pessimo risultato. L’uomo di Samaria: pessime parole e conoscenza, ma ottimo risultato! Così la vita sarà per voi anco paragone delle parole. ((2. Fa riferimento alla parabola del buon samaritano – Luca 10,25 -.))
Noi Che cosa rischiò il samaritano?
Seneca Molto, perché non sai che il samaritano era uomo ricco, che ciò è documentato dal fatto che: possedeva giumento suo e denaro. D’un colpo fra quelle rocce di un rosso ferrigno rischiò tutto per AMORE! (…)

 

La nostra Guida non ha mai perso occasione per ricordarci l’azione. “Amare è difficile!” Ha anche aggiunto qualche volta, lasciando tuttavia intendere che il grande peccato è il non agire , non proiettarsi altruisticamente verso il fratello (o se preferite verso il prossimo), a costo di sacrificio personale o di rischio, anche seguendo un comportamento “irragionevole” come “irragionevole” fu il buon samaritano; fino a dimenticare se stessi si dovrebbe, ma si può anche cominciare con poco per crescere via via.

In quante occasioni ci è capitato di provare forti sensazioni di gioia o di dolore per eventi capitatici? E quante volte invece siamo rimasti indifferenti per ciò che accadeva agli altri? In effetti è molto difficile riuscire ad “essere gli altri”, a comprenderli al punto da dimenticare se stessi e di compenetrarsi con essi!

Il cammino è lungo, ma ogni percorso necessita di un primo passo; e passo dopo passo, la nostra visione cambia e con essa muta il nostro modo di vedere le cose, come pure il modo di porci in relazione ad esse: cambia la mente!

Ed è proprio nel cambiamento della mente che ha inizio una sorta di trasmutazione in positivo, si amplia la nostra “coscienza morale”, o si corregge indirizzandosi verso una giusta ottica.

Qui compare il terzo cardine, il terzo principio essenziale: la “Metanoia”.

 

Seneca Il Battista nunciava il suo messaggio acchè giungessero all’ abluzione sortendo con : “Metanoèite”! Tradussero: “Pentitevi”! Ma era : “Cambiate la vostra mente”.Gli ebrei ben intendevano riferendo il verbo “shub”: che vuol dire “tornare indietro da errato cammino per intraprenderne nuovo, luminoso e retto”. Ora vi è chiaro il mio insistere sulla Metanoia? (…) Questo è l’altro punto: mutare la propria mente proiettandosi verso gli altri come conseguenza dell’averla proiettata verso Iddio nel conformarsi al di Lui volere.
Carlo La mente ed il corpo sono una cosa sola per cui dovendo cambiare la mente dobbiamo cambiare anche il corpo?
Seneca Il corpo, l’anima e lo spirito sono giunti (=congiunti) negli incarnati, come dissi e leggerai. Ma ti aggiungerò che, mutando la mente, troverai il corpo dominato a seguirla, vindice delle offese che esso le procurò a mezzo delle passioni. (…). Antea actio! Secundum: coscienza di conoscenza; tertium: metanoia! L’un punto vive sugli altri. (…)

 

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