CAP IV

Cristo non richiese mai le folle ; esse Lo seguivano. L’amore prorompe come mare burrascoso che tuona attorno a chi ne è oggetto, e romba con fragore di schiuma salsa e viva , ma nemmeno d’una goccia sfiora chi non ne vuol sentire effetto d’onda.

– L.A. SENECA –

Con questi quesiti ebbe termine la comunicazione nella parte attinente la fisica. La nostra Guida avrebbe potuto dirci di più? Sarebbe stata in grado di anticipare qualcosa rispetto alle future, magari prossime scoperte nel campo della fisica?

Sono certo di sì e sono altrettanto certo che è stato suo intendimento quello di arrestarsi sul limite delle attuali conoscenze scientifiche nel settore.

A mente serena debbo dire che non poteva né avrebbe potuto essere diversamente, anche se devo ammettere che l’apprendimento di nozioni scientifiche ancora sconosciute mi avrebbe permesso di avere quella prova regina incontrovertibile che avrebbe fugato i residui dubbi.

Eppure, quanto contenuto nelle comunicazioni di fisica ritengo non fosse rivolto esclusivamente a noi tre … anzi.

 

Un amico di mio cugino, Luigi, ingegnere, che ebbe occasione di leggere le comunicazioni sulla fisica, rimase a dir poco affascinato, non solo per i contenuti, ma anche per la estrema capacità di sintesi con cui i concetti, tutt’altro che semplici, erano esposti.

Bene, Luigi si preparava, lui ancora ignaro, a divenire il quarto elemento stabile del nostro gruppo. ((1. Il gruppo col tempo fu costituito da otto elementi stabili.))

Credo valga la pena raccontare in breve cosa avvenne.

Luigi era stato sin dai tempi della scuola amico fraterno di mio cugino, ed anch’io, avendolo conosciuto tramite lui, lo avevo frequentato.

Per alcuni anni i nostri rapporti erano stati improntati a grande simpatia ed amicizia, ma per delle futilità si erano deteriorati fino a ridursi al più freddo e formale saluto nelle rarissime occasioni di incontro, sempre peraltro sgradite ad entrambi.

Circostanze equivoche avevano inoltre contribuito a far sì che ciascuno di noi nutrisse scarsa considerazione dell’altro, per lo meno sul piano umano.

Bene, fatta questa premessa, torniamo all’interesse particolarissimo che ebbe a suscitare in Luigi il racconto di mio cugino circa le esperienze di tabellone.

Luigi rimase per alcuni giorni titubante: era combattuto tra l’ “umiliazione” di dovermi chiedere qualcosa e la curiosità.

Prevalse fortunatamente quest’ultima.

 

Quando un pomeriggio mio cugino venne a chiedermi se avessi avuto nulla in contrario circa la partecipazione di Luigi ad una seduta diedi subito la mia disponibilità (né mi sentivo di poter fare diversamente); intimamente tuttavia mi pungeva il pensiero che tutto questo avrebbe potuto offrirgli un’arma di critica, o, peggio, argomento sul quale ironizzare ai miei danni (che pensieri sciocchi e dannosi attraversarono la mia mente!).

 

Quando Luigi giunse a casa mia per la programmata seduta di tabellone si sciolsero con estrema semplicità le reciproche prevenzioni.

Ma ecco alcuni stralci della comunicazione in questione:

 

Seneca Quanto tempo dopo vi rivedo uniti.
Cristina Seneca, tu conoscevi anche Luigi?
Seneca Tutti ora conosco e d’ogni tempo.(…) Io che conosco i vostri cuori so che essi in verità non mentono anche se talora mentirono. Oggi siete fratelli. Oh possiate restarlo! Prendete l’un l’altro a piene mani dai vostri cuori, sempre temendo di poco esservi donati. Quanto avrete da amarvi nella comune miseria, quanto da sollevarvi nell’ansia della fede che rinvigorisce e consola!
(Luigi vorrebbe delle prove, qualcosa di concreto, di tangibile)
Seneca Quanto alla prova ne ho una inconfutabile: pensi!
Luigi Il fatto che hai letto nel mio cuore?
Seneca L’inconscio dei tre guida tutto ciò?
Luigi Sospetto, scusa, che ciò possa essere possibile.
Seneca Ma hai una prova!
Luigi Perché non me la manifesti?
Seneca L’inconscio, stolto, t’avrebbe assiso qui?
Luigi Era tanto grande la difficoltà che noi potessimo riunirci?
Seneca L’anima t’avrebbe fatto assidere ed il cuore l’ha fatto, dunque sei amato e so che ami; ma l’inconscio pur sempre diffidente degli uomini non v’avrebbe uniti: ecco la prova.Ora udisci: quando vorrai NOI saremo qui PER TE; quando vorranno sia tu qui PER ESSI! Siate gli uni gli altri fratelli come vi volle. Letizia vi sia perché oggi tutti più ricchi. Ave!

 

L’incontro di quella sera ed i successivi determinarono la completa cessazione di ogni atteggiamento ostile tra me e Luigi. Questo ci permise di poter gioire di una ritrovata amicizia. L’interesse di Luigi per i contenuti delle comunicazioni divenne nel tempo così vivo, che entrò a far parte del nostro gruppo con il nome di “Nord”; Seneca infatti non ci chiamò mai col nostro nome, ma sempre con quello, convenzionale, del punto cardinale corrispondente alla posizione di ciascuno di noi rispetto alla Croce che sovrasta il tabellone.
Io ero Ovest, mio cugino Sud, mia sorella Est.  ((2. Gli altri quattro elementi furono indicati con l’appellativo di: N/E; N/O; S/E e S/O. Infine si aggiunsero S/S-Est e S/S-Ovest))

Ecco ora un brano di una comunicazione veramente unica che diede a noi praticamente la certezza della esclusione del nostro subcosciente.

 

Noi Volevano chiederti se era opportuno che altri partecipassero alle nostre sedute.
Seneca Nondum vos ipsi apti audire estis (Trad.: “neanche voi stessi siete ancora capaci di ascoltare”).
Noi Perché non ci parli in italiano?
Seneca Nolo (Trad.: “Non voglio”).(…) Memento: mihi memoranda verba Christi sunt (Trad.: “ricordate: devo rammentarvi le parole di Cristo”): LATITTENUM QODASHAJJAAN DILKHON QOME KALBAJJA WELA TERMUN AROZAJJA DILKHON QOME ARIZAJJA.
Noi  Che lingua è?
Seneca Aramaico.
Noi Ce lo traduci?
Seneca Vos. Cum apti audire eritis? (Trad.: “Voi. Quando sarete capaci di udire”?).
Noi Significa che capiremo un giorno?
Seneca Si
Noi Dobbiamo tradurlo noi?
Seneca Sic.
Noi Sono parole di Gesù? Quando le ha dette? E’ il discorso della Montagna?
Seneca Il discorso della ….
Noi Ma noi come possiamo tradurlo senza alcun aiuto da parte tua?
Seneca Nihil difficile volenti. (Trad.: “Nulla è difficile a chi vuole”). Come possono, oh stolti, tre uomini porsi alla ricerca del vero se non sanno nemmeno tradurre queste parole che vi faranno trasalire?

 

E’ inutile nasconderlo: eravamo sconcertati! Di sicuro nessuno di noi aveva mai studiato l’aramaico e di sicuro mai quella frase aveva attraversato le nostre menti.

La domanda a questo punto era: “E’ veramente aramaico o si tratta solo di suoni senza significato? Certo la cosa non era semplice, anche perché, occorreva effettuare un processo particolare, e cioè trascrivere in lettere aramaiche i fonemi risultanti dalla lettura del passo dettatoci. Solo a questo punto avremmo potuto tentare la traduzione della frase in italiano per conoscerne il significato, ammesso che significato avesse. Un bel rompicapo!

Convenimmo che era necessario interpellare un conoscitore di lingue bibliche. Fino a quel momento del resto sapevamo che la frase apparteneva al “Discorso della Montagna”: ma quale, quello riportato nel vangelo di Luca o quello citato nel Vangelo di Matteo?

 

Nei giorni che seguirono si verificò una serie di circostanze, non so dire fino a che punto fortuite, che mi mise sulle tracce di un sacerdote, uno dei pochissimi (due) nella nostra regione che avesse conoscenza di lingue bibliche. Ottenni un appuntamento e tutti e tre andammo a trovare quel sacerdote, al quale sottoponemmo lo scritto, senza però indicargli l’origine e senza dargli alcun suggerimento all’infuori del fatto, naturalmente, che la frase era in aramaico.

Il sacerdote con infinita pazienza, riuscì parzialmente nel lavoro; non fu infatti facile anche per lui, che dovette avvalersi di alcune assonanze siriane antiche; tuttavia con due terzi della traduzione, risalimmo agevolmente alla parte del Vangelo in questione e precisamente al discorso della montagna di Matteo. Così alla seduta successiva ci presentammo, Vangelo alla mano, con la traduzione.

 

Seneca La traduzione.
Noi (leggendo il passo evangelico) “Non dare cose sante ai cani e non gettare perle dinanzi ai porci”.
Seneca Errato in parte. QODASHAJJAN è “monili” e non “cose sante”, ma il traduttore si è riferito erroneamente a QADOSH che in ebraico è “cose sante”:

 

 

Appare superfluo aggiungere alcunché ed è certo che anche al più irriducibile scettico, al nostro posto, sarebbe stato difficile fornire una “ragionevole spiegazione”, a meno di ricorrere, come un illusionista col proprio cilindro, ad altrettanti irragionevoli pescaggi in una sorta di subcosciente non più individuale ma collettivo: un serbatoio cosmico di conoscenza.

 

Desidero precisare che non vi fu mai alcuna prova “umana” della portata di quella appena descritta. Chi la diede certo non volle fare sfoggio di poteri o di possibilità miracolistiche sì da inginocchiarci dinanzi all’evento eclatante e folgorante, poiché ciò avrebbe minato seriamente il principio fondamentale di libertà nel quale dovevamo e dobbiamo permanere. Le scelte o i convincimenti devono poter essere traguardi da raggiungere attraverso la macerazione e la maturazione interiori, sicché possa sempre dirsi di poter accettare o rifiutare certa strada: ed è questo il grande dono che ci viene elargito dal Padre Celeste. La Sua volontà di volerci liberi, liberi financo di negarLo, è rispettata dagli Spiriti Buoni i quali derogano a tale principio solo quando è permesso dall’Alto.

 

Giusto per completezza vorrei soffermarmi sulla parola “QODASHAJJAN”, il cui significato è “monili”. In effetti il senso della frase evangelica diventa più armonico poiché si indicano “perle” e “monili” e non “perle” e “cose sante”.

Dunque, il fatto che sussista realmente un errore dovuto all’antica traduzione, oltre ad essere avallato dall’assonanza esistente tra i due termini “QODASHAJJAN” aramaico, e “QADOSH”, ebraico, trova ulteriore conferma nella disarmonia della parola “cose sante” nel contesto della frase.

Non voglio trattenermi oltre su tale episodio, che pure tanto ci turbò.

 

La prova più importante per la nostra razionalità doveva esser offerta dai contenuti altamente morali delle comunicazioni e degli insegnamenti della Guida, troppo spesso contrastanti con ciò che umanamente ed istintivamente saremmo stati portati a fare: avrebbe potuto il nostro subconscio indurci a compiere azioni di altruismo determinanti per noi sacrifici pur lievi?

Ma procediamo oltre.

 

Tanti e tanti vennero a porci domande da rivolgere alla nostra Guida; ogni occasione diveniva spunto per superbi insegnamenti; molti furono gli “occasionali ospiti” al nostro tabellone e sempre, dico sempre, ebbero risposte di elevato contenuto.

In una di tali occasioni, un ospite, Giuseppe, chiese circa un bambino malato:

 

Giuseppe Un consiglio sullo stato fisico del bambino.
Seneca Di nulla a me importa della spoglia mortale.
Giuseppe Non ti interessa dare un rimedio?
Seneca Non fui né sono medico del corpo.
Giuseppe Ma è dato intercedere per lui presso Dio?
Seneca Ma tu che (cosa) conosci delle finalità sullo spirito d’una infermità? Io così ti do il migliore dei suggerimenti: insegna a lui ad accettare con gioia ciò che Iddio gli volle riservare; che nella ricerca delle strade che ducono al Signore la sua sarà più facile.
Giuseppe E’ volontà di Dio che uno spirito si evolva in un corpo infermo?
Seneca Spesso per premiare.
Giuseppe Quindi è volontà di Dio che molti bambini nascano deformi?
Seneca La volontà di Dio si arresta volontariamente dinnanzi alla scelta (…). Ma che più dovrebbe un padre del meglio per il figlio? Così tu, tedicente uomo di fede, pensi Iddio punente chi di infermità è carco?
Giuseppe Che cosa pensi di noi che ti poniamo delle domande?
Seneca In qualunque loco cerchiare Dio state già pregando; in qualunque loco cerchiate voi stessi state già cercando Dio: in qualunque loco cerchiate il fratello state già cercando voi stessi, ma in qualunque loco dimentichiate il fratello avete già perduto Dio, così come quando abbiate trovato Dio vi accorgerete di avere già obliato voi stessi.

 

Molteplici furono i doni che ricevemmo: consigli, esortazioni, spiegazioni, conforto. Il più grande in assoluto fu ottener risposta da una voce fraterna proveniente da sconosciute dimensioni.

Una notte mio cugino, che dei tre è il più fortemente dotato di sensitività, fece un sogno estremamente realistico: si trovava in una meravigliosa vallata coperta da un prato verdissimo … tutti i colori erano accesi per via della intensa luce solare.

Mentre osservava tutt’intorno, una voce come tuono si estese per la vallata chiamandolo ed invitandolo a destarsi poiché era importante; doveva svegliarsi, invitava la voce, poiché doveva disegnare la Sacra Sindone.

A questo punto mio cugino, ancora intontito di sonno, si alza dal letto ed accostatosi alla libreria trova e prende un foglio di carta. Quindi si siede alla scrivania e nel giro di circa mezz’ora riproduce l’effigie della Sindone. Si corica nuovamente, riprendendo subito sonno profondo.

L’indomani è lui il primo a sorprendersi di trovare sul tavolo quel disegno.

Ed ecco cosa ci comunicò Seneca l’indomani:

 

Seneca Ho chiamato Sud nel sonno: spero piacevolmente! Perché? Egli possiede talento grafico ed io voglio anche donarvi immagini. (…) io ho preso il suo braccio e lo riprenderò a mio e vostro piacimento. (…) Il Cristo è quell’uomo che vedete sulla Sindone, ma essa è immagine ombra, è solo la tecnologia che ha rivelato i tratti: io vi ho voluto dare immagine senza artifici. Quello fu il volto umano di Nostro Signore. (…) fate dunque mille copie di quella effigie e conservatele per i fratelli cui le donerete, come reale immagine del NAZARENO! (…) chiedete che essi le portino nelle loro case e le affiggano accanto al loro letto. Ciò fate tutti e a tutti fate fare narrando del come l’aveste.Hoc volo et iubeo! Sic mea voluntas! (Trad.: “Ciò voglio e ordino! In tal senso è la mia volontà”!). non parlate ad alcuno se non l’avrete donata.
La Sacra Sindone
La Sacra Sindone

Qualche giorno dopo l’episodio dell’immagine di Cristo, ecco cosa ci raccomandò Seneca alla conclusione di una seduta; desidererei che quanto appreso fosse inteso dal lettore come a lui personalmente rivolto:

 

Seneca Vi supplico nel Santo Nome di Cristo: amate cento e mille e diecimila volte più di quanto fate! Nulla sarà negato in Cielo a chi avrà amato in terra. Oh voi, fatevi bisacce che non invecchiano a contenere tesori che, raccolti in terra, saranno perle in Cielo. Siate miti agnelli pronti a versare il sangue sulla terra da nutrire d’amore; fatevi sorriso a chi si dibatte nel pianto e più non trova nel proprio cuore la Luce per rischiarare la sua notte. Alleviate la pena a chi ha da partire dalla sponda dei viventi. Siate puri come bimbi nel sorridere a chi donerete l’effigie di Nostro Signore. Sia a voi pace come a chi la donerete per Cristo nostro Re. Bussate alla porta cedevole del Nazareno, bussate e le porte del Cielo si spalancheranno: ma cedete, miei forti, il passo a deboli ed oppressi, a prostitute e pubblicani, a poveri e perseguitati, a spregiati e mansueti, così da coprir loro le spalle all’ingresso della porta della Luce che mai ha tramonto.

 

Ora qui appresso l’accorato appello che Seneca rivolge a Diego, compagno di una abituale partecipante alle sedute.

Trovo personalmente il passo così struggente da non potermi esimere dal citarlo.

La persona cui Seneca si rivolge è un uomo mite e provato dalla vita da numerosi quanto grandi dolori. Il suo atteggiamento riguardo le questioni di fede, di religione, e quindi anche di tabellone, era di distacco misto a scetticismo; non così la sua compagna che non tralasciava occasione per spronarlo, tentando di stimolarne almeno la curiosità.

Seneca Io ho da lodare tutti: (…) a N/Est (a N/E della croce era seduto Diego), per la volontà o meglio il desiderio, comunque segno d’amore, se non per le cose del Padre per una mia sorella, che è in ogni caso passetto nel segno dell’amore che lega Dio al mondo. Ad egli chiedo pregandolo: attendi, non spazientirti se non riuscirai nel metodo, il tuo cuore è ampia e forte corazza ai dolori del mondo e la tua anima cassa di risonanza alla voce di Dio. Dunque, pazienza, oh amato e tribolato fratello: sappi che già sei amato nella terra dei viventi, sappi che già sei amato nelle contrade del Cielo. Nulla ti chiedo e richiedo! Solo un grano del tuo tempo ad udire la voce d’un pezzente che chiama te pure dall’agonia del Suo Legno. Se tale flebile sussurro divenisse alle tue orecchie grido d’amore, e sentissi come è a te personalmente rivolto, allora, senza intermediari o con essi, chiama non me miserrimo, ma Egli, il Cristo che rischiara i giorni dell’uomo! Non annoieremo dunque più te se non lo vorrai, ma SAPPI: chi non ti tedierà piangerà, chi non si farà ladro del tuo tempo per narrarti d’una fiaba antichissima di Galilea piangerà; chi più non ti invocherà con cortese insistenza fastidiosa, invocherà Chi tutti udisce nel pianto; chi più parlerà di ciò che non vuoi ripetuto, lo ripeterà nel suo cuore a gran voce acchè tu da sponda lontana l’udisca e, chissà, un po’ ricordi!.

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