La volontà
Visione del medium
L’osservatore si trova d’improvviso calato in un una realtà opprimente.
Cammina in una landa desolata senza vegetazione. Il terreno è costituito da sterpaglia. Lui è vestito con una tela di sacco, è scalzo ed ha con sé solo una bisaccia. La misera borsa non è data sapere se è vuota o piena di qualcosa.
L’atmosfera plumbea è resa ancor più angosciosa dal cielo nero per la spessa coltre di nubi che ostacola la luce del sole che rimane invisibile all’osservatore. Tutto il panorama è pianeggiante a perdita d’occhio, solo in lontananza di fronte a Sé vede delle colline avvolte da nubi temporalesche. Un borbottio di tuoni lontani tambureggia minaccioso annunciando pioggia che non tarda a sopraggiungere con gocce grosse e pesanti.
L’osservatore inizia a correre verso le tre colline alle quali si avvicina rapidamente finché vede apparire, tra due di esse, il mare anch’esso molto scuro per via delle dense nubi. In cima alla terza collina si staglia una lapide nera con sopra impresse delle lettere in ferro arrugginito. Ad un tratto dal mare si forma un ciclone violentissimo ed anche dalla terra si forma un tornado gigantesco; entrambi si incontrano squassando tutto mentre si ode il rombo di tuoni; la scena è apocalittica; i due, ciclone e tornado, giungono alle spalle della collina risalgono poi fino alla lapide nera e, raggiuntala, la mandano in frantumi scagliando via anche le lettere della scritta. D’un tratto, dal cielo, si apre uno squarcio ed una luce intensa, scende sul mare illuminandolo: la luce, in forma di triangolo, si propaga come una enorme onda di tsunami raggiungendo la terra ferma e la collina. Tutto sembra rasserenarsi. La scena si rischiara, il cielo diviene sereno e azzurro, il terreno si ricopre di un soffice manto erboso e fiori.
Prodigiosamente la lapide infranta si ricompone mutando di colore da nero in bianco con striature rosse, e anche le lettere si ricompongono cambiandosi da ferro in oro lucente. Sulla lapide si vedono le linee delle fratture e attraverso esse filtrano lame di luce abbacinante.
L’osservatore cerca con difficoltà di leggere ora la scritta in lettere d’oro impressa sulla lapide:
TERTIUM VOLUNTAS :
UT QUO ESSE VOLO PERVENIAM ,
QUA NON SUM TRANSIRE DEBEO ;
UT OMNIA HABEAM
NIHIL CUPERE DEBEO ;
UT AD UNUM PERVENIAM
NIHIL ESSE VOLERE DEBEO ;
QUIA QUOAM DEBILIS SUM
TUM FORTIS SUM
++++
Traduzione:
TERZO PILASTRO È LA VOLONTÀ :
COSÌ AFFINCHÉ IO GIUNGA LÀ DOV’È IL MIO ESSERE
IO DEVO PASSARE ATTRAVERSO IL MIO NON ESSERE ;
AFFINCHÉ IO ABBIA POSSSESSO D’OGNI COSA
IO NON DEVO BRAMARE ALCUNA COSA ;
AFFINCHÉ IO DIVENGA L’UNO-TUTTO
DEVO VOLERE DIVENIRE IL NULLA ;
PERCHÉ È QUANDO SONO PRIVO DI VIGORE UMANO
CHE DAVVERO DIVENGO FORTE IN SPIRITO
Commento alla visione
Lo spirito, il Sé, ha completato il processo di discesa nel mondo, ma lo ha fatto tramite il piccolo sé.
Ha ottenuto ciò cui aspirava e che aveva chiesto con la preghiera: poter entrare nelle vicende umane e vivere la vita dell’uomo; entrare nella materialità e sperimentarla.
Tutto è tenebra adesso. Anche la coscienza si è ottusa. Il Sé si è – per così dire – calato nell’uomo, nel sé piccolo, è diventato uomo, fragile, mortale uomo!
La realtà che il sé/uomo trova è opprimente; si sente isolato perché ormai disconnesso dal Padre, o almeno così gli appare!
È incistato nella materia tanto che il piccolo sé umano non comunica con il Sé, operando liberamente nella dimensione materiale del mondo.
Il sé piccolo non possiede nulla, solo una “bisaccia” entro cui, non sappiamo, potrebbe avere soltanto mezzi idonei all’esperienza materiale che si è prefissato il Sé. La bisaccia potrebbe contenere intelligenza, furbizia, ambizione, forza di volontà, fascino, ricchezza o altro ancora. La bisaccia servirà di certo al sé piccolo per raccogliere esperienze di vita umana (dolorose e non) che non saranno disperse o consumate (la bisaccia nel corso della vita potrà contenere solo moneta incorruttibile=la moneta che non invecchia) ed il contenuto di essa soltanto potrà essere portato via da questo mondo, alla fine del viaggio, per essere consegnato al grande Sé. Tutto il resto (averi, ricchezze, onori, titoli, il corpo fisico e perfino il nome di ciascun uomo) sarà abbandonato ed affidato al tempo che tutto inesorabilmente annienta con la sua travolgente forza di trasformazione che si dispiega nel divenire. (Il mito ci racconta di Crono che divora i suoi figli).
Il sé smarrito non sa chi sia, né da dove venga e perché si trovi in quel luogo oscuro. La pioggia battente lo spinge verso le colline le quali, un po’ più alte, sembrano essere l’unico punto di cambiamento nella sconfinata e arida steppa. E in effetti dietro le colline spunta il mare (qui certamente a simbolizzare il corpo eterico ossia il centro delle passioni e dei sentimenti dell’uomo).
A questo punto il sé, salito su una delle tre colline, giunge dinanzi alla lapide nera.
In questo momento noi vediamo la coscienza del piccolo sé che osserva se stesso simbolicamente rappresentato dalla lapide nera. Essa lapide, come vedemmo per le altre, rappresenta non qualcosa di materiale, bensì la situazione animica, ossia il momento evolutivo in cui si trova il Sé ed il sé.
Simbolicamente rappresenta l’EPOCA GRECO/ROMANA che si protrae fino al medioevo (preceduta dalla epoca “Lemuro-atlantidea” e seguita dalla attuale nostra).
Essa corrisponde alla condizione materiale umana degli istinti prodotti dalle forze dell’ego che spingono a dominare, a sopraffare gli altri per sopravvivere o per trarne vantaggio; la forza degli istinti e delle necessità primarie (il tornado terrestre) si unisce alle forze dell’eterico (il ciclone marino)[75] che alimenta passioni e desideri e sentimenti in un turbine egoico squassante; sono le sirene che Ulisse vuole ascoltare. Le due forze, che con semplicità potremmo definire il male, il diavolo, unite insieme provocano inevitabilmente dolore all’umanità. Dolore che può essere gigantesco, incommensurabile. Ma qui, ancora una volta troviamo il paradosso: la violenza delle passioni e del dolore frantuma la picea lapide (e forse tutto ciò include simbolicamente anche la morte secunda). Ma può anche essere che attraverso il dolore, il sé prenda consapevolezza che la realtà che sta vivendo non può essere la REALTA’, quella autentica.
Così dopo la tempesta delle passioni che squassano la lapide nera, dopo il dolore e l’illusione, dopo aver udito il canto delle suadenti sirene, il sé è ormai consapevole che il viaggio che un tempo volle iniziare debba avere termine per fare ritorno in patria, così come Ulisse che, ripresosi dallo stordimento dell’ingannevole canto, dice: “Quanto mi sembra lontana Itaca adesso!”.
Ed ecco che una mano salvifica, provvidenziale giunge all’uomo troppo debole, troppo fragile. Una colonna di luce scende dal cielo, la divinità si manifesta e fa udire la sua voce. Ricompone la lapide che ora è di colore bianco con strie rosse; essa ritorna ad essere come la prima lapide, quella della speranza; una sorta di rinascita dunque si è verificata.
La ricomposizione della lapide simbolizza la dolce violenza del “fotismos” recepita dalla ristretta cerchia di coloro che furono un tempo gli appartenenti alla “Casa di Israele” per opera del Cristo.
La lapide a questo punto non torna ad essere perfettamente integra, ma ha fratture attraverso cui filtrano lame abbacinanti di luce, luce divina. Il Cristo nel momento più oscuro attraversato dall’umanità si incarnò in questo mondo e, come fiamma che accende da dentro, riaprì i varchi al Sé permettendo l’interscambio con i minori corpi [astrale, eterico e fisico, altresì definiti Causale, Sottile e materiale].
Egli non doveva giungere prima perché ancora possibile la salvezza autonoma dell’uomo, non poteva giungere dopo perché tardivo sarebbe stato l’intervento con conseguente enorme dilatazione dei tempi di recupero per l’uomo. Ed il Cristo, non dimentichiamolo, entra financo in quella dimensione che chiamammo “isola dei morti” per portarvi salvezza!!
Qui è d’uopo fare il solito raffronto con l’Apocalisse di Giovanni: La lapide nera ci ricorda il cavallo nero. Ci troviamo, cioè, alla schiusa del terzo sigillo del libro.
“All’apertura del terzo sigillo vediamo apparire un cavallo nero e colui che lo monta reca in mano una bilancia. Lo stato della coscienza si amplia e si consolida. L’uomo, ormai pienamente cosciente di “Sé”, diviene anche responsabile del proprio operato e risponde alla legge del Karma dare/ricevere, in ciò simbolicamente rappresentato dal cavaliere con la bilancia. Siamo nell’età pietrina della coscienza, dunque sotto il dominio della Legge. (Con Mosé abbiamo il momento in cui la Legge si imprime nell’anima dell’uomo; evento simbolicamente rappresentato dall’arca dell’alleanza, ovvero l’anima, al cui interno sono custodite le tavole della Legge).”
L’uomo, come abbiamo detto, non è capace di risollevarsi con le sue sole forze, non è, cioè, in grado di invertire il cammino per fare ritorno…ed allora Dio entra nella storia dell’uomo!
Io sono la Via la Verità e la Vita. Con il Cristo l’uomo apprende la verità, torna alla vita e riprende il cammino!
Ed il Cristo è il Signore del tempo umano e del tempo dello spirito poiché a lui è stato consegnato il potere di aprire i sigilli del libro. Così in ogni tempo lo spirito che si incarna avrà Cristo che ricomporrà la lapide trasformandola da nera in bianca. Grazie a Cristo il “sé” incarnato potrà comunicare col “Sé” poiché i varchi sono aperti e la luce può filtrare attraverso essi: ecco perché potremo dire che l’uomo è già salvo, sol che lo voglia, perché pur sempre intangibile rimane la sua volontà e quindi la sua libertà.
Non a caso la lapide ci racconta che il terzo pilastro è proprio la “volontà”.
Significato della scritta
Il terzo pilastro è la Volontà
Va premesso che il tema di fondo non espresso, ma che costituisce il presupposto è la libertà: libero lo spirito di iniziare il viaggio, libero di proseguire, libero di arrestarsi. Dunque, sempre possibile rimane per lui la scelta ed ogni scelta è il risultato di un atto volitivo.
In questa fase del “viaggio”, la volontà assume connotazione preminente, fondamentale. Si rende necessario volere superare le difficoltà e gli ostacoli che si presentano al Sé incarnato.
È grazie al Cristo che il Sé grande ed il sé piccolo hanno di nuovo possibilità di colloquio, di comunicare, cioè, tra di loro; dunque, è insieme che procedono e, potremmo dire, “Vogliono”. È insieme che affrontano l’esperienza mondana e le difficoltà che questa contrappone.
Se per Kant l’idea della “Cosa in Sé” (Dio) ci giunge dal “Noumeno” che però inconoscibile rimane all’uomo contrariamente a quanto avviene per il “Fenomeno” (realtà esterna che però è “rappresentazione” umana non realtà oggettiva essendo l’uomo stesso con le sue categorie a crearla – Velo di Maya -), per Shopenauer il Noumeno è invece “conoscibile” sol che si penetri all’interno dell’umano sentire attraverso la Volontà; cioè, occorre volere. Peraltro, la Volontà per Shopenauer è elemento insopprimibile che sottende ogni cosa, non solamente l’uomo. Ma per il grande filosofo essa Volontà si configura come una Forza libera e cieca, ossia come una sorta di energia incausata senza un perché e senza uno scopo che però costituisce motore, ossia forza, che mi spinge a “volere”.
Grande intuizione quella dell’insigne filosofo, ma quest’ultima parte del pensiero di Shopenauer non è condivisibile a parere di chi scrive. La volontà qui è sì forza libera e apparentemente cieca, ma non priva di scopo, non priva di senso; non possiamo affermare che la Natura vuole perché vuole. In realtà “La Natura VUOLE Essere”! Questo è il concetto base sotteso a questa lapide, il segreto che spiega anche il dolore che pervade la natura (e che meglio vedremo nella quarta lapide).
Ma come fa la natura a tornare a Dio per essere in unione con Lui? Solo attraverso quel “voluto” processo evolutivo che la permea e che coinvolge, alla fine, anche l’uomo…;1 gli uomini sono infatti parte della natura stessa, che, ormai pervenuta all’autocoscienza, è pronta al ricongiungimento con Lui (Dio vuole che essi tornino a Lui). Dal non-essere all’Essere: “Per dove non sono devo transitare”, afferma la scritta incisa sulla lapide. Dunque, potremmo immaginare l’uomo come aspetto della natura che, giunta all’apice del processo, acquisita l’autocoscienza, può transitare nell’Essere.
Come si è detto: la Natura vuole Essere! Perciò faticosamente, lentamente, tormentosamente, persegue tale scopo.
La spinta insita nella natura è la “volontà di essere”, dunque di evolvere, fino all’autocoscienza e quindi fino all’uomo che in tal modo diverrebbe il punto di transito della natura: il passaggio dalla semplice coscienza all’autocoscienza che costituisce il primo vagito dell’Io Sono.
Dunque, la Voluntas è l’energia di spinta per il creato tutto che, con fatica, con dolore, si impegna ad evolvere sempre più e procedere nel percorso di ritorno all’Origine. Diversamente avremmo avuto una natura viva sì, ma senza volontà, cristallizzata, immobilizzata nella condizione in cui ciascun essere vivente si trova ad occupare – per cieca fatalità – ora e per sempre, ora e da sempre! Così il filo d’erba resterà filo d’erba e tornerà ad essere tale all’infinito e così il leone; anzi sarebbe probabile la inesistenza della diversità della vita; non sussistendo alcuna scala evolutiva non si renderebbe necessaria, infatti, alcuna varietà nella natura che anzi perderebbe addirittura la ragione stessa della sua esistenza.
Affinchè Io Giunga Dove Voglio Essere per Dove Non Sono Devo Transitare.
Dobbiamo fare una premessa: Dio è Armonia assoluta; tale armonia viene dalla perfezione e per essere la perfezione Egli non deve mancare di nulla: deve, cioè, potere essere Tutto. Il Tutto per sua stessa definizione non può escludere alcunché. Ciò implica che Dio deve/vuole/sceglie di Essere, ma anche di non-Essere. Per essere il Tutto in Lui devono essere pertanto ricompresi sia l’Essere che il non-Essere, ossia il bene e financo il male (qui privo di connotazione morale).
Il grande Sé è filiazione di Dio, possiede la Sua medesima “Essenza” e per tale ragione deve e vuole conoscere non solo la Luce da cui proviene, ma anche l’assenza della Luce, per avere consapevolezza del Tutto. Da qui la necessaria discesa nella tenebra, nella regione del non-Essere.
Che cosa vuole raggiungere il Sé? Vuole raggiungere il Regno. Il Regno del Padre inteso come consapevolezza piena del proprio essere Figlio di Re e dunque Egli Stesso Re. Ma per conquistare la consapevolezza di essere Tutto e “rientrare da re colà dove vorrei essere”, devo conoscere e dunque sperimentare il non-Sé, ma per conoscerlo è necessario che transiti per la regione del non-essere, ovverossia transitare colà dove non-Sono. E poiché il Sé per sua stessa essenza è Essere, non potrà transitare nella regione del non-Essere, ma lo farà attraverso il sé piccolo umano, sua creatura, suo “figlio”. Il sé, piccolo, vivrà la dimensione della materialità, ossia del non essere, e reitererà l’esperienza finché questa non venga assorbita, assimilata interamente dal grande Sé che così facendo riceve dono di vita cosmica. Dunque, il sé piccolo deve morire, cioè si deve sacrificare per dar modo al Sé grande di “conoscere”, conoscere ciò che non Gli sarebbe possibile poiché in qualità di Essenza non potrebbe attraversare la regione della non essenza qual è il mondo della materia; ad esempio, non potrebbe fare l’esperienza “della morte”[77], ma non soltanto. È ben vero che tutto ha il Sé in Sé, ma tale processo è necessario alla sua conoscenza/coscienza dovendo il Sé prendere autonoma consapevolezza. Così dovremmo supporre che ogni incarnazione amplia la conoscenza e dunque la coscienza del grande Sé. La regione del non-essere è quella del sé piccolo, figlio ed espressione del Sé grande il quale, ad ogni discesa terrena, apprenderà, crescerà, imparerà proprio per il tramite e grazie al suo “sé” umano, figlio fragile, caduco, mortale.
Ad ogni incarnazione anche gli involucri saranno perfezionati dal Sé che sperimentando impara. Il Buddha al momento dell’illuminazione ricordò tutte le sue incarnazioni pregresse.
Infine diremo che vi può essere un Altissimo Sé grande che si incarna non per necessità di sperimentare la regione del non-Essere, bensì per amore dell’umanità, ossia di tutti quei sé che, non riuscendo a comunicare con i loro rispettivi Sé, necessitano di una Guida, necessitano di Chi gli indichi la Via. Quale potrebbe essere il sé piccolo di Costui? Quale il dono di quest’ultimo al Sé grande padre suo? Potrebbe ad esempio dargli l’opportunità di allargare ed accrescere talmente tanto la Sua coscienza (qui intendo la coscienza del Sé grande) da identificarsi con la divinità stessa, con il Logos Stesso. Ed abbiamo così quell’Altissimo SE’ che, come abbiamo detto più sopra, entra nella storia dell’uomo, nel dolore dell’uomo, nella tenebra dell’uomo ovvero nella regione del NON-SE’; ecco il perché Gesù di Nazareth – un “sé” piccolo evolutissimo in costante colloquio col suo grande “Sé” – sacrifica se stesso riuscendo con tale estremo atto d’amore ad identificarsi e quindi a fondersi con la parte più alta della divinità: il Logos, cioè Dio! Ecco la ragione per cui – essendo il Logos la parte di Dio che noi chiamiamo Figlio – Gesù è Figlio di Dio, vero uomo, vero Dio.
Affinchè Abbia Tutto non Devo Bramare Nulla;
Anche questa frase non è di semplice soluzione.
Perché non dovrei desiderare? Chi mi impedisce e che cosa mi limita?
Nessuno mi impedisce, posso chiedere tutto e senza alcun limite salvo uno: se desidero e desidero per me, mi separo dall’Uno tutto. Concentro il mio desiderio su una parte (me stesso) che, inevitabilmente mi fa escludere il resto. Dunque, il desiderare mi allontana dall’Uno, da quell’Uno verso cui cerco e spero di ricongiungermi. Ed allora per avere tutto non devo desiderare nulla.
Qui basterebbe richiamare l’insegnamento del Buddha che ci dice che il “desiderio” è uno dei 3 veleni dell’uomo (desiderio, attaccamento, ignoranza).
Affinchè Giunga All’uno Devo Voler Annullarmi;
E giungiamo alla legge delle proporzioni inverse.
Se tutto, e intendo tutto, mi viene da Lui il Padre, Re, UNO, su che cosa poggia il mio valore, la mia boria? Non posso che riconoscere la mia pochezza, anzi prenderne coscienza e annullarmi. Finché rimarrà in me un residuo di EGO, ossia scorie del mio io piccolo, beh non potrò ricongiungermi all’Uno.
Sicché se ambisco essere tutto devo voler essere nulla o, per meglio dire, tendere ad annullarmi. In altri termini quell’Ego che mi offre l’opportunità di individualizzarmi e dunque di distinguermi dal Tutto regalandomi la autocoscienza del Sé, deve essere superato ed anzi “ucciso” perché una volta espletata la sua funzione quell’ Ego mi farebbe solo da freno e da limite. Solo così potrò giungere a quell’Uno/Tutto cui bramo e spero di riunirmi.
Ed infatti che cosa possediamo noi? Nulla! Tutto da Lui, Padre, a noi giunge sia in termini umani che sovraumani, sia da incarnati che da disincarnati. È pertanto importante prender coscienza di ciò, avere consapevolezza che vita, coscienza, forza, tutto ci giunge dall’Alto, ed è per tale ragione che l’energia d’amore che ci perviene deve fluire e non arrestarsi; dunque, noi dobbiamo farci mediatori dell’amore di Dio. Rammentiamo sempre: “poco merito nell’amore, poca colpa nell’errore”.
Chi si abbassa sarà innalzato!
Perché Quando Sono Debole Allora Sono Forte.
Accettare l’altro, il fratello, è accettarne i limiti, è accettare tutto quanto fa da corollario al suo momento evolutivo. Così colui che è più evoluto deve avere la forza di sopportare i limiti altrui, anche quando ciò implica il subire le sue prevaricazioni, il subire la sua maggiore forza, umana forza, che lo schiaccia, fa a lui credere di avere un potere maggiore e quindi di essere superiore. Direi che solo chi è più forte può sopportare, accettare senza moto di ribellione l’angheria altrui. Anzi il forte, colui cioè che è più avanti evolutivamente parlando, dovrebbe addirittura giustificarlo, o trovare nel comportamento offensivo i motivi di tale agire. Il piccolo, che all’occhio umano può apparire debole poiché soccombente nello scontro, sul piano sottile è di certo il più forte; egli, infatti, accetta l’altro come fratello anche quando questi lo ferisce.
Del resto, come potrei ricongiungermi all’Uno se non accetto il fratello che è proprio parte di quell’Uno? I fratelli sono porzioni di quel Me Stesso a cui tendo, non accettandoli non potrei ricongiungermi ad essi, ma se non mi ricongiungo non procedo verso l’Uno.
Vediamo allora le ultime due frasi senza separarle, ma cerchiamo di interpretarle in un unico senso:
Ut ad Unum perveniam nihil esse volere debeo; quia quam debilis sum tum fortis sum.
- Affinché io divenga l’Uno-Tutto devo voler essere il nulla;
- Perché è quando sono privo di vigore umano che davvero divengo forte in spirito.
Il progetto, la finalità, l’obbiettivo che mi sono prefisso è quello di divinizzarmi; questa è la premessa da cui partire per spiegarci il senso dello scritto e comprendere la lapide. Ed allora se voglio veramente divinizzarmi devo abbandonare compiutamente, definitivamente la regione dell’ombra, della materia (ossia del non-essere) e tutto ciò che essa conseguentemente comporta.
Dunque, devo aspirare ad essere nulla, ossia non lasciare su di me traccia di materialità, ma diventare solo e soltanto Luce.
Questo fondamentale concetto è meglio specificato nella seconda parte dello scritto che, non a caso, inizia con la parola “perché” finalizzata a spiegare il senso che non deve rimanere oscuro.
Perché quando sono privo di vigore umano, quando cioè non possiedo forza fisica, forza intellettiva, forza razionale, combattività, vanagloria, desiderio di affermazione, di sopraffazione, istinto predatorio ecc. – in una parola “ego” piccolo umano -, ecco che rimane spazio, più spazio allo Spirito. E che forse lo Spirito non potrebbe prenderselo questo spazio se solo lo volesse? Certamente, senza dubbio alcuno! Lo Spirito è Dio e quindi tutto è Suo. Ma esso Spirito si arresta là ove volle per Sua autonoma, libera scelta e volere; tale punto di arresto si chiama “Libertà” donata alla sua creatura: il sé piccolo, umano.
Ed allora quanto più io deliberatamente sceglierò di rinnegare me stesso come uomo, quanto più vorrò rinnegare la mia natura animale, (quella parte cioè di sé piccolo che vive ed opera in unità nel non-Sé) tanto maggiore sarà lo spazio per lo Spirito, tanto più consentirò ad Esso di parlarmi, di comunicare con me, piccolo sé, e Gli permetterò in tal modo di indirizzarmi e non perché mi viene imposto, ma in quanto così liberamente io ho scelto, o meglio, il mio sé (piccolo) ha scelto con conseguente arricchimento spirituale.
Ecco allora che sarò sempre più forte in Spirito: cosicché la mia debolezza umana, fisica, si compenserà o, meglio, si convertirà in forza spirituale. Pensiamo a Ghandi, non trovo esempio migliore.
La grande Anima, il Mahatma, aborrì ed abiurò la forza fisica e la violenza, crebbe immensamente in forza spirituale e con la potenza delle idee e della parola cambiò il corso della storia del suo popolo, immenso per numero, scongiurando così un enorme bagno di sangue, di lutti e dolore.
Ed inoltre se appena ci volgiamo alle beatitudini di evangelica memoria, non è forse scritto in Matteo che Egli disse: “Beati i poveri di spirito, perché loro è il Regno dei Cieli”?
Beato allora chi ha la forza di abbandonare il mondo, di abbandonare la cittadella della ragione e mortificarla per incamminarsi a pieno titolo, da cittadino, nello sconfinato Regno del Padre. Tanto meno spazio lascerò alla mia natura umana, e dunque materiale, tanto più spazio avrò lasciato allo Spirito: tanto più mi farò piccolo e sarò debole tanto più diverrò forte e pieno di Spirito.
Deve pertanto concludersi che tale opera avviene per il tramite dell’esperienza che il sé (piccolo) acquisisce vivendo nella materia, vivendo di materia, nella materia; è una conquista che va a riempire la c.d. “bisaccia che non invecchia”, va cioè ad arricchire di Coscienza il sé e conseguentemente di Vita Cosmica il Sé.
Note
- 75 : Si rammenti che nell’Apocalisse ogni volta che si parla di “terra” ci si riferisce al corpo fisico e quando si parta di “acqua” al corpo sottile; sia l’uno che l’altro sono gli “involucri più densi e pesanti di noi.
- 76 : In altre parole, è Dio che vuole conoscere Sé Stesso Uno Tutto e si dona libertà di prendere in tal modo Auto-Coscienza dell’Essere e del non-Essere. Non v’è in realtà processo evolutivo in Lui, che è l’Essere così come è da sempre, per sempre.
- 77 : Infatti, come potrebbe morire un essere immortale? Dunque, come farà un essere immortale a sperimentare la morte? Potrà farlo solo immedesimandosi, immergendosi in una sua proiezione mortale: cioè, un figlio umano; quello che noi chiamiamo semplicemente sé piccolo!