Sulla vecchiaia e sulla malattia
Della fragilità, materiale fragilità, dell’uomo nessuno dubita. Anzi, è da ritenersi che non vi sia alcuno al mondo che non si sia chiesto del perché il destino dell’uomo sia ineluttabilmente segnato dal progressivo degrado fisico dovuto a quel che chiamiamo “invecchiamento” e, come se non bastasse, alla sua vulnerabilità dovuta alle malattie del corpo; cause entrambe che pongono fine all’esistenza materiale con la morte. Non avrebbe il Buon Dio potuto, se solo avesse voluto, crearci più forti e magari imperituri, lasciandoci immutati negli anni del migliore vigore giovanile? Acché la nostra caducità?
Taluno sarebbe tentato di rispondere che se l’uomo non fosse stato fragile e debole la sua protervia, la sua superbia e tracotanza non avrebbero avuto alcun freno e limite.
Ma le ragioni sono molteplici e più profonde.
Non dobbiamo perdere di vista il punto fondamentale: l’obbiettivo, il target, per dirla con termini attuali. L’obbiettivo ultimo non è vivere la vita che conosciamo in questa terra ma vivere, ossia essere vivi, ovvero conoscere e quindi prendere coscienza allargandone il più possibile l’orizzonte! Questo l’obbiettivo non nostro bensì Nostro, cioè del nostro Spirito. Egli è instancabile ricercatore e, attraverso la vita terrena, cioè attraverso l’incarnazione, sperimenta ed apprende. Certo tutti potremmo essere degli ottimi nuotatori dopo un corso teorico per corrispondenza, ma poi deve seguire la prova dell’acqua, si dovrà, cioè, testare nella pratica esperienza ciò che si è appreso con lo studio. Ci si accorgerà allora che nuotare in acqua è cosa ben differente. Così per lo spirito che, libero, vuole conoscere: fare, cioè, l’esperienza della materialità. Ed essa comporta proprio una vasta gamma di tests: in primis la fragilità e caducità dell’umana condizione; in altre parole, il non-essere. Egli sperimenta, con la morte fisica, la sensazione della propria fine, che fine poi non è in realtà ma che, ritenuta tale nella condizione della materialità, permette di far conoscere al nostro spirito che cosa sarebbe un’esistenza in cui è programmata la propria cessazione di esistere. Nel conoscere ciò, lo spirito, al contrario, vive apprendendo la morte, facendo cioè esperienza attraverso essa. Ma non solo. Sperimenta il dolore, sia esso fisico che morale; sperimenta la frustrazione, l’handicap; sperimenta l’amore umano, la gioia umana, la pace del cuore; sperimenta l’odio e le varie passioni; insomma, si immette in un crogiuolo, un atanor, che gli consente di raffinarsi e crescere. E poiché lo Spirito è libero, libero è pure di scegliersi il programma, per così dire, che gli permetta di apprendere il più possibile.
Così gli spiriti scendono sulla terra in pace ma non per vivere in pace. Straziante è il destino che taluno vuole scegliersi per progredire maggiormente, per crescere più rapidamente, per conoscere e prendere coscienza sfruttando il più possibile l’esperienza che l’incarnazione gli offre. Se non cercasse l’ombra per conoscerla non potrebbe prendere vera coscienza della Luce; esso non conoscerebbe e dunque non vivrebbe o sarebbe come se non vivesse.
Non infrequente è il caso che una vita umana si interrompa poiché essa – per le scelte libere umane – devìi dal programma che lo Spirito si era dato e soprattutto dall’obbiettivo che si era prefissato.
La malattia, con il suo carico di dolore, non ha certamente la finalità di angariare; essa è mezzo, è strumento davvero indispensabile a far ritrovare, nella fragilità e vulnerabilità, la condizione reale del sentire… del sentire gli altri come fratelli, anch’essi fragili come io sono, anch’essi dolenti come io sono, anch’essi soli come io sono, anch’essi … come me! E in quella solidarietà che nasce spontanea dove il dolore umano alberga, ritrovo il fratello e come tale lo riconosco; quel dolore mi fa superare i limiti imposti dal castello di egoismo in cui mi sono arroccato per andargli incontro nell’abbraccio del: “Io ti comprendo poiché sono come te e come te soffro!”
Ed allora apprendo l’amore, non solo quello umano, ma un amore solidale per i miei simili, amplio cioè il mio orizzonte della coscienza e così vivo!
Siamo abituati, ed è naturale, a respingere la malattia e contrastarla, detestandola poiché è causa di sofferenza; ci prodighiamo nelle cure poiché vogliamo cacciarla via da noi; è reazione naturale, umana; tuttavia, sarebbe forse utile guardare ad essa con altri occhi: interpretare, cioè, la malattia non come nemica portatrice di vessatorio dolore, o almeno non solo, ma anche come segnale, indicazione, messaggio. Sforziamoci quindi di sentire e comprendere che cosa essa vuol dirci, vuole segnalarci. Un raggio di sole abbacina e ferisce la nostra pupilla, ma quel dolore che avvertiamo forse vuole solo indicarci che laggiù, in quella direzione, vi è il sole che splende per noi! Allora il dolore, che la malattia comporta, forse ci parla, forse vuole dirci qualcosa… proviamo ad ascoltarlo!
Non è infrequente, infatti, che la malattia altro non sia che la somatizzazione, la manifestazione esteriore di un male interiore, un male dell’anima, per così dire. Spesso l’idea di malattia viene associata a quella di peccato, ma potremmo sostituire quest’ultima parola con il termine “errore” che meglio rende il concetto che qui si vuole esprimere. Se dunque siamo in errore a causa di comportamenti egoistici o dannosi per il prossimo, ovvero che ci fanno sprofondare in vizi turpi che ci allontanano dall’obbiettivo prefissato, ecco comparire il segnale: l’insorgere della malattia che vuole indicarci di correggere il percorso erroneo che abbiamo intrapreso.
Gesù guariva i malati, ma prima guariva la loro anima. Non pochi episodi ci danno conferma di tale affermazione. Rimasero scandalizzati i dottori della legge ed i farisei alle parole di Gesù che disse al paralitico “Ti sono rimessi i peccati”. “Solo a Dio è data la potestà di rimettere i peccati”, dissero con rabbia! E Gesù li stupì chiedendo loro se fosse più facile rimettere i peccati o far camminare il paralitico; quindi, gli ordinò di prendere il suo lettuccio e di andare via con le sue gambe, e questi, guarito d’improvviso, lo fece. (V.si Lc 5/17).
NON RIDERE
NON LUGERE
NON DETESTARI
SED INTELLIGERE
Le vicende umane non sono cose su cui ridere,
né piangere e nemmeno sono cose da odiare,
bensì esse sono da comprendere
L.A.S.