Quinta lapide

 

POCO MERITO NELL’AMORE;

POCA COLPA NELL’ERRORE”.

 

Da una prima lettura il messaggio parrebbe contraddire quanto insegnato fin qui dalle Alte Guide.
Amare è difficile! Dunque grande merito in chi riesce ad amare il prossimo; addirittura grandissimo merito per chi riesce ad amare il nemico.
Questa sembrerebbe la sintesi degli insegnamenti impartiti in passato. Ma l’insegnamento iniziatico deve travalicare l’usuale modo di comprendere, rompere taluni schemi mentali e alleggerirsi.

Il giudizio – si è sempre sostenuto – è di Dio e non dell’uomo il quale, non possedendo il vero metro di esso, non potrebbe giammai esprimer sentenze.
Così come il giudizio non è dell’uomo, anche l’amore non è dell’uomo, ma solo di Dio!!

Il flusso d’amore inarrestabile – sia che l’uomo lo definisca misericordia o carità, sia che lo definisca dono o grazia -, trova la sua sorgente solo in Dio! L’uomo è il destinatario, ma anche amministratore di questo flusso che non si interrompe mai a patto che non venga arrestato dall’agire di altri uomini per egoistico tornaconto.

Pertanto si dovrà affermare che il mio agire in amore altro non è che trasmissione del flusso divino cui io non ho frapposto ostacolo alcuno. Il mio merito rimane quello di aver agito in modo tale da non interromperlo facendo da tramite, facendomi cioè portatore di esso; l’agire in amore però dà poco merito a colui che operò, non potendo egli far proprio quel flusso d’amore che, non suo, appartiene solo a Dio; a costui rimane tuttavia il merito, poco come si è detto, di non aver interposto ostacoli al suo fluire ed anzi, di essersi piegato e fatto mezzo, strumento, dell’amore di Dio.

Tutto ha inizio dalla misericordia del Padre e tutto in Essa ha termine

Dice l’invocazione all’Angelo Hahahel: “(…) Aiutami perché l’amore che ricevo da te ritorni alle Fonti primordiali arricchito del mio amore umano,  intessuto nella trama delle mie opere e dei miei sacrifici. (…)”

Il non agire in amore diviene, di talché, una colpa poiché esso va visto ed interpretato come azione commissiva mediante omissione e dunque colpevole.

Ecco la ragione per la quale dobbiamo essere umili. A questo punto della riflessione il concetto di UMILTA’ si impone.  Quale infatti il mio merito nell’essere venuto al mondo? Quale merito nell’essere in buona salute? Nel disporre di una brillante intelligenza? Nessuno! Tutto mi giunse in dono gratuito e senza merito; saranno poi le mie libere azioni susseguenti a far fruttare i doni secondo orientamenti egoistici o altruistici.  L’umiltà è una dote che deve necessariamente accompagnarci perché nulla di veramente nostro possediamo se non la libera volontà di confarci a quella Altissima di Lui, e nessun merito abbiamo se non quello di esserci liberamente resi disponibili a trasmettere quel vento d’amore che non ci appartiene ed al quale non abbiamo il diritto di porre interruzione. (per approfondire v.si 2° libro, il terzo trittico: “Fede, Carità, Umiltà”).

Concetti, questi or ora esposti, che ci aiutano a meglio comprendere il seguente antico lapidario detto :

Me n’andrò,
qual nebbia
che dilegua al vento,
qual solco in mare
d’agile carena;
a me poi resterà
quel che di me
io avrò donato.

Dunque se io donerò quel che, NON mio, avrò saputo trasmettere ad altri, bene, quel “donare” sarà ciò che rimarrà di me anche dopo questa vita.

Il vescovo Myriel de “I Miserabili”, patito il furto delle posate d’argento da Jean Valjean, afferma che troppo a lungo aveva tenuto per sé quelle posate NON SUE, insegnandoci con quel semplice gesto ciò che è contenuto nella lapide odierna.

Analogo ragionamento dovremo seguire per interpretare la seconda parte della comunicazione:  “Poca colpa nell’errore” .

Se abbiamo consapevolezza della nostra fallacia, della nostra debolezza, chiederemo più e più volte al Padre Santo di perdonarci, di scusarci; ciò poiché siamo certi che la infinita bontà di Lui sarà tale da perdonare i nostri errori, i nostri peccati, anche i più gravi. Il vento della misericordia divina soffia sempre verso noi tutti. Ma noi come ci comportiamo? Lasciamo che questo vento ci attraversi e prosegua fino a raggiungere il nostro prossimo? O forse lo fermiamo e al suo posto trasmettiamo sentimenti e pensieri di odio, di crudeltà, di vendetta, di antipatia, di  avversione o semplice indifferenza? Siamo capaci di esprimere misericordia verso il prossimo così come la chiediamo al Padre per le nostre manchevolezze? Abbiamo questa capacità che è conseguente al nostro grado di coscienza?

Richiamerò alla memoria la “Parabola del debitore spietato” nella quale è narrato che un re, impietosito dalle suppliche, condona al proprio servo un debito di diecimila talenti, e recede dall’originario proposito di venderlo con la moglie, con i figli e con ogni suo avere affinché saldi il dovuto. Appena uscito, quel servo ne incontra un altro che gli deve cento denari, e lo afferra e lo scuote, pretendendo la restituzione della somma. Il debitore spietato non vuole esaudire le suppliche del compagno e lo fa gettare in carcere, fino a che non abbia saldato il debito. Venutolo a sapere, il re lo fa richiamare e gli dice: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse avere anche tu pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. E, sdegnato, lo consegna agli aguzzini fino a quando non abbia restituito tutto il dovuto. Concluse Gesù: “Proprio così il Padre mio celeste tratterà voi, qualora non rimettiate di tutto cuore ciascuno al proprio fratello”.

Bene il servo malvagio non usò clemenza; evidentemente non aveva consapevolezza “morale” del suo comportamento: chiese ed ottenne dal re l’estinzione del suo debito, ma non fu altrettanto generoso condonando al suo debitore; interruppe cioè il flusso di misericordia arrestandolo su se stesso.

Questa consapevolezza proviene dall’amore che siamo in grado di esprimere verso il nostro prossimo; ce lo insegna la peccatrice di Magdala che amando molto si riconosce molti peccati e, riconoscendoseli, cerca il perdono attraverso un’azione emendatrice (lavanda dei piedi) ottenendo infine misericordia (“…a te sono rimessi i peccati, i quali molti, poiché molto amando molti ne hai riconosciuti.”).

Ma se questa consapevolezza non abbiamo, non avremo il perdono, ma solo  severa giustizia! Eppure grazie al Figlio, siamo ancora ed ancora scusati perché… quando operammo il male non sapevamo quello che facevamo!

Dunque ci sarà riconosciuta poca colpa nell’errore o perché giustificati da Cristo che – caricandosi gran parte del debito – al Padre grida dalla croce: “Perdona loro! Perché non sanno quello che fanno!” – ovvero perché, consapevoli, saremo in grado, molto amando, di riconoscerci molte colpe e di cercare di porvi rimedio.

Nella preghiera che ci insegnò Gesù chiediamo al Padre di essere clemente con noi così come noi lo siamo con il nostro prossimo; un concetto di giustizia che però fa appello pur sempre alla bontà misericordiosa di Dio il quale non potrà – secondo pesi e misure – non esser misericordioso con coloro che lo furono con i fratelli, ossia non frapposero ostacoli alla clemenza divina impedendole di raggiungerli.

Un’ultima riflessione che ci riconduce inevitabilmente a Gesù: Questi si è fatto tramite dell’enorme flusso d’amore del Logos, non frapponendo alcun ostacolo ad esso, anzi annientando se stesso per permettere il fluire d’amore divino al punto tale che il Logos si è compenetrato, direi fuso, in Gesù operando Egli Stesso attraverso Lui.

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