CAP I

Del Male e del Dolore nel mondo

Il problema che tormenta chiunque si soffermi a riflettere sulla natura e sulla sorte dell’uomo è quello del male e del dolore nel mondo. Quante volte ci siamo chiesti (ed abbiamo sentito dire): se Dio è buono ed onnipotente, perché consente il male? Se è onnipotente non è certo buono (potrebbe eliminare il male, ma non lo fa). Se è buono non è però onnipotente (vorrebbe, ma non può). Tertium non datur.

La Bibbia ci fornisce una sua spiegazione attraverso il simbolico racconto della disobbedienza di Adamo ed Eva, che, collocati da Dio nel giardino dell’Eden, assaggiarono il frutto proibito, quello dell’albero del Bene e del Male. Per punizione, furono cacciati dal Paradiso Terrestre e condannati alla fatica, al dolore, alla morte. Noi, discendenti di Adamo, portiamo, nel corpo e nell’anima, le stigmate della colpa adamitica. Gli uomini, dunque, perduti a causa del peccato dei lontani progenitori, non potrebbero trovare salvezza se Dio, nella sua misericordia, non avesse offerto loro il rimedio: la Redenzione, operata dal Figlio, che si è fatto uomo e si è offerto in sacrificio pagando per tutti.

Il racconto biblico, letto in un’ottica strettamente dogmatica, non è convincente.

Appare giusto e ragionevole che l’umanità, rectius, che ogni singolo uomo, la cui anima dovrebbe essere immacolata perché (come insegnato dalla Chiesa Cattolica) creata direttamente da Dio al momento del concepimento, debba portare su di sé il peso di una colpa altrui? Il peccato originale, così inteso, appare un oltraggio alla ragione, alla morale ed alla giustizia ((1. Sul Peccato Originale rimandiamo ad una comunicazione che si riporta in Appendice “B”.)). Ma sembra ancora più illogico ed ingiusto che la salvezza dell’umanità si attui poi attraverso un’iniquità ancora più grande: l’olocausto dell’Innocente, il Sangue del Figlio.

Secondo tale assunto dunque, l’uomo,  incatenato al peccato per una colpa non sua, giungerebbe comunque alla salvezza per meriti non suoi.

Cerchiamo allora di far chiarezza anche con l’aiuto e l’insegnamento delle nostre Guide.

Dio è il Tutto, Uno ed Indivisibile. Purtuttavia, (è questo un Mistero d’Amore), l’Uno – indivisibile – si è partito in una infinità di scintille, cui ha dato il dono divino dell’io sono, ovverosia della coscienza di sé. Le scintille hanno natura divina; sono dunque simili a Dio per loro essenza (non uguali a Dio); sono ciascuna come un granello di sabbia nel deserto, come una goccia d’acqua nell’oceano (la goccia non è l’oceano, ma in essa si ritrovano tutte le componenti di cui è costituita l’acqua del mare). Insita nella Natura di Dio è la Libertà; pertanto le scintille, partizione dell’impartibile Unità, sono anch’esse libere, libere di aderire in toto all’armonia del Tutto, ossia all’armonia del Padre, ovvero libere di allontanarsene, di ritenere se stesse (e la loro piccola egoità) il Centro cui fare capo. Ma l’allontanamento dalla Fonte di Vita comporta l’esperienza negativa del male, del dolore, della morte, in un universo rovesciato, in una vita che appare come se Dio non ci fosse. Attraverso il dolore, che ha una funzione correttiva, quella di far comprendere l’erroneità di determinate scelte, la creatura può, se lo vuole, intraprendere il percorso inverso, quello del ritorno alla Casa del Padre, aderendo alle regole che furono poste in pondere et mensura a fondamento dell’equilibrio armonioso ed armonico dell’Essere. Noi non portiamo, dunque, innocenti, il carico della colpa di Adamo; non v’è creazione al momento del concepimento dell’individuo, lo spirito preesiste alla incarnazione terrena, che è una sua libera scelta. Ciascuno di noi, con tale scelta, ha assaggiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, ha cioè scelto in realtà di fare l’esperienza della conoscenza.

Tuttavia – volendo rimanere nel solco del mito – il simbolo del primordiale barlume di coscienza dell’uomo deve essere considerato più propriamente il serpente e non l’effetto dell’ingestione del frutto. Fu infatti detto barlume di coscienza a conferire il libero arbitrio ai due proto-umani, ‘sì da poter scegliere se mangiare o meno quel frutto, ossia se obbedire o meno. Se così non fosse stato a nulla sarebbero valse le suggestioni del serpente la cui presenza nel Paradiso, e la cui funzione, dovevano essere ben note a Dio!

Secondo il racconto biblico i nostri progenitori, dopo avere mangiato il frutto, (e solo allora) si accorgono di essere nudi. Hanno, dunque, raggiunto l’autocoscienza. Mangiare il frutto è la rappresentazione allegorica del momento che porta all’autocoscienza, all’io sono.

Lo spirito che decide di incarnarsi (di nascere, quindi, come uomo, affrontando l’esperienza della materialità) raggiunge dunque la coscienza del suo piccolo sé individuale, ma dimentica di essere una porzione del Tutto.

Tentiamo di srotolare un tappeto tra le cui pieghe v’è annodata la trama di una fiaba.

Un re potentissimo, il più alto di tutti i re, decise un giorno di condividere i suo regno con i suoi servi, ch’egli amava più d’ogni altra cosa . e poiché i suoi servi erano a lui come figli, parlò così ai suoi figli:

Non facile è l’essere tutto, ma ognuno può esserlo confondendosi con la maestà divenendone parte, ed anzi lui stesso divenendo maestà. Cosa dunque dovremo fare dissero i figli – per dividere con te la maestà? Nulla sentenziò il padre, soltanto essere me come già foste. Mal comprendendo il dire regale essi, pur tuttavia, si pararono ad ascoltare.

Ed Egli continuò: chi vorrà potrà qui restare; chi ambisce divenire me dovrà però andare. Liberi voi della scelta. Taluni dissero: o re, non sono idoneo ad intraprendere il viaggio, e qui permarrò. Altri invece dissero: noi vogliamo andare. Nella fiaba non vi dirò dei primi ma continuerò sui secondi. Costoro si mossero ma un monito ebbero dal padre-re. Tale monito, in termine che non è d’uopo ripetere, era così, più o meno formulato: voi andate ma se andate non porterete con voi memoria di questo tempo né di questa reggia. Voi andate ma se andate troverete il deserto trapunto però di oasi dove una pallida memoria di questa reggia potrà talora condurvi. Voi andate per essere il re; ciascuno il re. Ma rammentate che per essere il re è necessario che si conosca il deserto oltre le mura dell’altissimo reame.

Ed In esso v’è sete, fame, disperazione, ed in uno dolore. Ma in quelle oasi che io ho piantato e tra quella verzura v’è il segno del luogo e del tempo donde veniste. Se andate troverete chi vi dirà dell’inesistenza del regno; chi vi indurrà a rinnegare la vostra stazione di partenza; chi involto nella disperazione, vi dimostrerà che non v’è re e non v’è regno. Se andate allora – da ultimo dico- ed incontraste costoro figli, ricordate che essi come voi. Taluno poi giurerà alla vostra mente dimentica che egli come voi è partito in un tempo lontanissimo dal regno, né sa dov’è, ma fortemente, fermamente, sicuramente, non dubita che ci farà ritorno. Colui ascoltatelo, né prendete il suo dire come profferito dalla follia. Così quel re aveva detto; così quei suoi servi udirono. e quindi andarono oltre le mura.

La fiaba è pur sempre monca, priva del termine di essa. E neppure è ricca di quei particolari che, tra le pieghe di quel tappeto ancora avviluppate non sono venuti alla luce. Ma pur sempre essa va letta, e ben più attentamente di quanto possiate credere. Due le ipotesi: è fiaba, e tale rimane per l’ozio gioioso di chi l’ascolta; non è fiaba, ed allora è gravida di qualcos’altro che solamente il credervi può disvelare. Ma, come potrebbero, e potranno invero, credere servi ciechi e dimentichi che oltre le mura non v’è che l’arsura del deserto? Interrogandosi talora sulla veridicità di una lontana oasi., come potranno con le loro menti confermarsi nel “razionale” sospetto che meramente trattasi di miraggio? Da un’altra lettura, dunque, ecco nuovamente la chiave. Essa è celata nelle pieghe di detta fiaba; pur monca! Da tale cammino non è però il girovago andare per dune che può fare ritornare al regno. E ben badate: il ritorno non è il fine ma il mezzo, poiché i servi chiesero di divenire re! Né può dirsi peccato d’orgoglio; poiché tale richiesta amorevolmente venne accolta; in quanto essi servi erano per loro primigenia natura re ! Ma poiché – qualcuno si domanda – il sovrano che è padrone del regno e dell’oltre regno, delle mura e delle terre del non ritorno, non si pone maestoso dinanzi ai suoi dispersi nel deserto per ricondurli alla reggia? Non si creda che una tale domanda abbia risposta più semplice di quella che devesi! Sappiate comunque che sia chi resta, sia chi va, sia chi ritorna, tutti sono re e parte del re! Né timore alcuno v’è nel deserto per chi sa. Ma sul sapere v’è palestra come per il pellegrino che dopo lungo allenamento intraprende il viaggio poggiando il piè ora su un luogo ora sull’altro, stanco, sì ma ben fermo nel vedere la meta.

Questa fiaba ci venne narrata in una comunicazione del 1999. Il significato è chiarissimo.

I “servi” che decisero di allontanarsi dal Regno per intraprendere il viaggio nel deserto sono quegli spiriti (scintille divine e, quindi, Figli), che, scegliendo di fare l’esperienza della materialità, s’incarnarono, divenendo così “uomini”.

Nella condizione della materialità gli spiriti dimenticano la loro origine divina e precipitano nel dolore, nel male, nel peccato. Alla nascita segue necessariamente la morte. Lungo, aspro e faticoso è il percorso per tornare alla Casa del Padre.

L’uomo, quale entità o porzione del Tutto, ha deciso (poiché concessogli in dono di libertà, essendo egli stesso virtuale frammento di Dio), di discostarsi dal Padre per propria scelta; ha cioè deciso di abbandonare quel che nel racconto mitico viene descritto come il paradiso terrestre preferendo… il male! Il male non in senso assoluto ma il male inteso come scelta autonoma che lo distingue e, in definitiva, lo sépara – apparentemente e soggettivamente – dal Tutto (Dio Padre), con la conseguenza di precipitarlo nel non-Sé, ossia nella regione dell’ombra (il riferimento spaziale ha qui naturalmente solo valore espositivo). Potremmo a questo punto citare molteplici miti che ci raccontano da sempre, e sotto varie forme, il senso dell’avventura umana (il mito di Osiride, il viaggio di Ulisse, il mito di Demetra e Persefone celebrato nei Misteri Eleusini, la cacciata dal Paradiso di Adamo ed Eva, financo la parabola del figliol prodigo). Ma, come raccontano i miti, il rimpianto di ciò che si è perduto, la nostalgia per la Casa paterna abbandonata, il dolore del mondo divengono spinta a ricercare la strada del ritorno. L’uomo, infatti, che pure non ha memoria – né potrebbe averla – della divina paternità, avverte che la sua esistenza non può essere circoscritta e relegata ad una condizione eminentemente fisica e temporale.

Ogniqualvolta decide di attuare una sua scelta autonoma di volontà, egli si discosta e sépara dalla Fonte.

Quando, attraverso gli errori, sovente a prezzo del dolore (che però vuole solo indicarmi che la scelta del cammino intrapreso è errata poiché la Luce è altrove), avrò imparato ad applicare liberamente la mia volontà in modo da renderla aderente a quella del Padre (il che in definitiva altro non è che seguire un comportamento santo) o, in altre parole, avrò imparato ad indirizzare il mio libero arbitrio in guisa da entrare in vibrazione armonica con le Leggi Assolute ed Eterne poste secondo pesi e misure acconce dall’Ente Supremo, ecco che allora mi sarò accostato alla Luce ed avrò colmato la distanza (apparente e solo soggettiva) che avvertivo tra me, minuscolo frammento, e l’Origine, il Padre, di Cui sentirò poi, alla fine, l’abbraccio avvolgente, tenero e gioioso per il mio ritorno! Tale distanza può essere colmata d’un balzo oppure lentamente ed a fatica. Dipende solo da me e dalla mia libera scelta, che tale rimane poiché tale Si vuole che sia. Lungo questo percorso riuscirò a comprendere che sarò sempre più libero nella misura in cui deciderò liberamente di agire in modo confacente all’armonia del Tutto di cui si è detto.

Dalla fiaba del viaggio nel deserto dei figli del Re sembra di comprendere che coloro i quali decisero di restare nella reggia siano entità spirituali, mai incarnate, che hanno scelto liberamente di rimanere nel seno del Padre, così rimanendo nella vibrazione Maxima dell’Assoluto senza però conoscere.

Ma altre scintille divine, pur non incarnandosi, forse operarono, all’Inizio del Tempo, una scelta opposta: quella di voler conoscere e quindi di volersi calare nella realtà dell’anti sistema.

Il mito mussulmano di Eblis, l’Angelo ribelle

Iddio, chiamato a Sé Lucifero, l’Angelo più splendente del Creato, gli ordinò: “Da oggi servirai l’uomo!”

Ma l’Angelo rifiutò e rispose : “Signore, io sono qui per servire Te e solo Te, poiché Te amo sovra ogni cosa e a Te giurai eterna fedeltà, non all’uomo!!

Così – secondo un antico mito della cultura islamica – ebbe luogo l’atto di disobbedienza di Lucifero, che ritenne di poter fare a meno di Dio. Ed il sistema Universo, fino a quel momento in perfetta armonia, per l’assoluta felicità in cui vivevano le creature, si frantumò e precipitò in un altrove, realizzando una sorta di universo alternativo ed antitetico al precedente. Il crollo fece precipitare Lucifero con gli Angeli a lui fedeli nel mondo infero ove vivono liberi, ma nella dilacerante nostalgia di Dio.  In tale universo antitetico si riversarono e si riversano anche quegli spiriti che liberamente si distaccarono e si distaccano da quel Paradiso (decidendo di incarnarsi). Tali creature, scegliendo la libertà, rimasero avviluppate nelle volute dell’influsso luciferico che, nella discesa, sempre più le appesantisce e le rende dimentiche dell’origine loro per l’effetto d’oblio provocato dall’incarceramento nell’individualità egoica della carne.

Al di là del mito, al di là della tradizione cristiana che narra della rivolta degli angeli guidati da Lucifero, deve ritenersi che queste espressioni antropomorfiche celino la realtà di un fenomeno che avvenne su piani di esistenza così elevati da non poter essere da noi concepiti, in dimensioni avulse completamente dalle nostre rappresentazioni di spazio e di tempo, categorie mentali proprie della mente umana.

Si realizzò così quella “caduta” che provocò l’allontanamento (solo soggettivamente inteso non potendosi realizzare de facto l’allontanamento o separazione dal Tutto) della creatura dal Creatore, da quell’Uno che, sebbene inscindibile, consente, per dono d’amore, di frantumarsi nell’infinito pulviscolo spirituale delle sue creature.

Il Paradiso terrestre diviene così un luogo inaccessibile all’uomo che ha scelto la sua libertà e, così facendo, ha voluto prendere consapevolezza della sua individualità e coscienza di sé medesimo.

E Lucifero agisce come polo di attrazione delle creature che inconsapevoli vengono “tentate a mangiare il frutto” di quel tal albero che le renderà sì libere ma … al prezzo che sappiamo.

Il Male

Fig. 1   Lo Yin e lo Yan
Fig. 1 Lo Yin e lo Yan

Il male esiste ed è una realtà incontrovertibile. Ma, come è stato più volte affermato, se è vero che l’Uno-Tutto abbraccia il tutto e tutto contiene, necessariamente ha insita in Sé Medesimo anche la parte che definiamo di ombra…; come dire che in Dio è anche il male. Tale affermazione va attentamente soppesata affinché non si giunga a conclusioni distorte o peggio errate. Qui, sia chiaro, si disserta di Male privo di apprezzamento morale.

Se Dio è Dio, non possiamo ammettere neanche concettualmente una divinità imperfetta. Ed imperfetta sarebbe quella divinità che non fosse onnisciente. Dunque Dio, per essere perfetto, deve necessariamente essere anche onnisciente; ma per essere tale deve poter conoscere non soltanto il bene ma anche il suo contrario; solo così, conoscendo Se Stesso anche nel Suo opposto – potremmo dire nella Sua parte oscura -, Egli avrà conoscenza piena ed assoluta di ogni parte di Sé (dunque anche del Suo contrario: il non-Sé). Solo così potrà realmente essere – come Egli vuole – il Tutto.

Ma il male non va visto solo da questo punto di vista, come una “necessità” di Dio per poter essere Tutto. Cadremmo in un errore ancora più grave: avremmo concepito un Dio necessitato da qualcosa, il che non è, né potrebbe essere, dal momento che avremmo un Dio imperfetto prima, poiché necessitante di qualcosa, ed un Dio perfetto solo dopo che fosse stata assolta tale necessità. Non si potrebbe inoltre concepire una divinità sottoposta al fattore “prima/dopo” e cioè al fattore tempo, che, sebbene esista come realtà ricompresa in Dio, non Lo assoggetta, essendo Egli al di fuori e al di sopra di esso.

Dio dunque è così, perfetto, poiché così Egli è da sempre (nel non-tempo), ed essendo così non potrebbe essere altrimenti.

Come illustrato all’inizio di questa trattazione, il male esiste come conseguenza della libertà e non come necessario complemento e completamento dell’Uno-Tutto.

Ciò che vale per l’uomo e per il suo cammino verso la Luce o, se si preferisce, verso la Casa da cui è partito – e da cui si è partito – per ricongiungersi alla Fonte primigenia, non può valere per Dio. L’uomo infatti procede ed ha una esistenza-coscienza non assoluta (poiché essa è tale solo in Dio). Egli percorre un cammino per tappe (che sono in definitiva la relativizzazione di ciò che è assoluto in Dio) attraverso le dimensioni spazio/tempo, attraverso gli effetti della legge del Karma e del ciclo delle rinascite, per proseguire ancora oltre, lungo percorsi inimmaginabili. Il cammino per la perfettibilità è proprio dell’uomo (( 2.Potremmo però affermare che paradossalmente l’uomo sarebbe già perfetto, ma v’è una difficoltà: lui non lo sa!)). Il suo esistere, soggettivo ed in progressione dinamica, potrebbe paragonarsi ai fotogrammi di un film in fase di proiezione (come diremo più avanti). Dio è l’Assoluto Tutto che potremmo, volendo banalizzare, paragonare al film/capolavoro girato, proiettato, premiato. In conclusione: ciò che in Dio è perfetto e compiuto, nell’uomo, che procede lungo la strada dell’Essere, è ancora itinerario incompiuto e da compiersi (ossia l’uomo che vive, come afferma il Buddha, nell’impermanenza).

Attenzione, però, poiché ciò vale hic et nunc; vale cioè sempre in un continuum di hic et nunc … poiché l’impermanenza, o se si preferisce il divenire che è proprio della condizione dell’uomo, non è assente in Dio, che Tutto ricomprende. Ma allora? Come conciliare tutto ciò?

Non v’è dubbio che sotto il profilo eminentemente filosofico, ma anche fisico-chimico, il divenire di cui si sta parlando tende alla quiete. Il problema sorge allorché si parla di caos (Caos) per il quale i concetti di entropia ed entalpia stanno tentando di dare spiegazione attendibile sotto il profilo scientifico.

L’errore di fondo, se guardiamo a Dio, sta proprio nel punto secondo il quale tutto, nel suo divenire, tenderebbe alla quiete. Infatti, se ciò rispondesse alla realtà dell’Uno, Questo avrebbe un determinismo dinamico che, in effetti, non Gli è proprio!

Il Suo divenire è invece da sempre presente, eterno e dinamico in fieri sempre!

E’ concetto che trova difficoltà ad essere compreso in chi come noi è avvezzo al ragionamento teleologico (che è poi in definitiva una categoria della mente umana).

In Dio non v’è teleologismo umanamente inteso, ma v’è divenire che in sé e per sé ha motivazione d’essere. In altri termini si può asserire che il dono di Libertà d’essere che l’Uno fa a noi – e dunque a Se Stesso essendo noi parte di Lui – è proprio quello del divenire senza determinismo teleologico.

Basti pensare soltanto all’ipotesi di un confortante Iddio che in un disegno finalistico di miglioramento – per così dire – di Sé e di Noi (parti spirituali dell’Uno), avesse progettato un lungo viaggio di perfezionamento – tendente alla quiete – di Sé e di Noi: ciò confliggerebbe con la Perfezione, indubbia ed indiscutibile, dell’Essere che non ha più da acquistare ciò che ha già e cioè il Tutto!

Allora potremo affermare che se invero l’Uno diviene costantemente, ed il Dono fatto a sé partito dal Sé è la libertà di discostarseNe, allora non vi sarà mai fine a tale dinamismo – si badi non autopefezionantesi – dell’Uno!

Non è il dinamismo in definitiva che porta Iddio alla perfezione bensì è la perfezione di Dio che, per essere tale – cioè Tutto – ha insito in Sé tale dinamismo.

Non v’è dubbio che tentare di sondare l’insondabile possa produrre in colui che è avvezzo all’impiego della logica sconcerto nell’osservare tesi o princìpi apparentemente contraddittori: quale logica infatti potrebbe ravvisarsi in Chi è Tutto Compiuto e Tutto Divenire; Tutto Uno e Tutto Parti separate; in definitiva Uno e Trino?

Occorre convincersi che tutto, TUTTO, è, hic et nunc, in perfetta armonia ed equilibrio determinati dalla perfezione, senza tempo e senza spazio, dell’Uno-Tutto, già da sempre perfetto ed immutabile nel Suo dinamismo non diveniente né finalizzato, che ama e Si ama.

Quindi potremo affermare che la Realtà è sempre e solo una ed è uguale a se stessa, immutabile come la Verità che sembra nascondere. Ma ciò non vale per l’uomo, poiché egli ne coglie frammenti, baluginìi; la vede cioè a seconda del proprio grado di percettibilità, che varia in ragione del suo livello evolutivo e dunque di sensibilità. E per sensibilità sono da intendersi organi fisici e non. Quindi, in definitiva, è solo un problema di prospettiva: in Dio completa ed assoluta, in noi parziale e relativa. Per meglio conoscere ed ampliare la nostra coscienza dovremmo allora tentare di guardare con…. gli occhi di Dio!

E’ da dire, in conclusione, che il dolore, come il male (conseguenza ineluttabile del dono di libertà offerto all’uomo), non sono fattori sterili; sebbene spesso incomprensibili all’uomo, svolgono invece una funzione fondamentale: entrambi infatti operano come propulsori verso la Luce, come forti pungoli della coscienza acché essa non abbia ad acquietarsi e scivolare nel sonno ((3. Il cui torpore fino all’annientamento è costituito dalla morte seconda, ben rappresentata dal pittore svizzero A.  Böcklin nel suo capolavoro “L’isola dei Morti”: un quieto, immobile, stagnante inferno dell’anima.)). E’ concetto difficilmente accettabile se visto in ottica squisitamente umana: eppure perfino il cancro o l’assassino, nell’economia globale dell’evoluzione, operano in favore del progresso spirituale dell’uomo. Insomma, tutto è rivolto verso il bene – tutto è pro e nulla è contra – anche quando all’occhio umano ciò non appaia ma, anzi, sembri esattamente il contrario.

Si sgombri dunque la mente ed il cuore da qualunque condizionamento provocato dalla tradizione, o dalla religione stessa, che ci parlano di un Dio del Male, Satana, o che addirittura ci raccontano di un Dio buono che lotta perennemente contro il male e che un giorno, chissà quando, avrà il sopravvento, ma che, nel frattempo, lascia che le Sue creature (gli uomini) vengano angariate, assillate, tentate, sedotte dal cosiddetto demonio che ha in odio il Dio buono ed i figli Suoi.

Ma soprattutto non inganniamo noi stessi giustificando il nostro operato – frutto di nostra libera scelta – qualificandolo come conseguenza della tentazione del demonio che ci vuole trascinare nell’abisso. Noi, noi e solo noi siamo i responsabili delle nostre azioni, omissioni e pensieri, buoni o cattivi o addirittura nefasti che siano.

Ciò valga sia per le tentazioni di Eva e di Adamo, che scelsero liberamente di diventare come Dio e mangiarono il frutto, così come suggerì il serpente; valga altresì per le tentazioni che ebbe Gesù nel deserto. Egli, come uomo, al pari di tutti gli uomini, subì ciò che è insito nella natura egoica umana: le tre maggiori tentazioni, a tutti note, che però seppe superare ed annientare con la forza della sua fede, scegliendo liberamente di patire e morire per inconcepibile atto d’amore per l’umanità.

Il Male, dunque, è strettamente connesso con la nostra libertà .

Ma il problema di come l’uomo possa vincere il male rimane fin qui irrisolto.

Dunque tentiamo di darne soluzione. Se Dio, che è il Tutto, per essere realmente il Tutto deve ricomprendere in Sé anche il Male (si ribadisce ancora una volta che si intende il male prescindendo da ogni apprezzamento morale), anche nell’uomo che fa parte del Tutto alberga una porzione di male oltre che di bene. Se però come uomo cerco di combattere il male che è in me, tale ossessiva ricerca e lotta mi impediranno di liberarmi da esso, col risultato che il male finirà col seguirmi sempre. La chiave risolutiva sta invece nel compiere sempre e comunque il bene. Piano piano, lentamente, il mio operare verso il bene lascerà sempre minore spazio al male fino a che questo scomparirà del tutto.

Il Dolore

Come già ricordato, il prezzo dell’incarnazione, scelta di libertà, è altissimo: dolore, malattia, vecchiaia, morte. Ma questo percorso consente di fare ritorno alla Casa del Padre liberamente e consapevolmente.  

La nota parabola del Figliol Prodigo, che secondo la interpretazione più semplice raffigura il ravvedimento del peccatore (e la gioia in Cielo per la sua conversione), offre una chiave di lettura più profonda: il Figliol Prodigo rappresenta tutti quegli spiriti che, usufruendo della libertà (insita nella loro natura, giacché fatti  – per dono d’Amore- ad immagine e somiglianza del Creatore), hanno scelto di incarnarsi. Il Figliol Prodigo è dunque l’uomo. Il fratello saggio simboleggia gli spiriti che, liberamente anch’essi, sono rimasti soggettivamente in comunione con il Padre, confacendosi costantemente alla sua Volontà. (“Figlio, tu sei sempre con me, e tutto quello che io ho è tuo, ma era ben giusto far festa e darsi alla gioia, perché questo tuo fratello era morto ed è ritornato in vita. Era perduto e si è ritrovato”. Lc.15/31).

L’universo – come ci ricorda il grande mistico e medium Pietro Ubaldi nella sua opera “Dio e Universo”- è un edificio di “io”, che da un “IO” centrale del Tutto si polverizza gerarchicamente discendendo in “io” sempre minori; ciò dall’infinito galattico a quello nucleare”.

Dice ancora Ubaldi (stessa opera): “Amore e Libertà sono connessi: questa implica quello. Un sistema non basato sulla Libertà non potrebbe essere incentrato sull’Amore. I princìpi che reggono l’universo sono strettamente connessi. Essi possono ridursi ad uno solo da cui tutti derivano: l’Amore. Fu per Amore che Dio volle la creatura egocentrica, fatta a Sua immagine e somiglianza, compartecipe delle Sue stesse qualità. Fu per Amore che Dio volle la creatura libera, perché quell’Amore essa liberamente comprendesse e contraccambiasse”.

Creando l’uomo “a Sua immagine e somiglianza”, Dio gli ha conferito dunque un dono immenso, insito nella sua stessa natura: la Libertà. Ma la Libertà comporta la possibilità di un cattivo uso di essa, con tutte le conseguenze di responsabilità personale per chi opera la scelta egoistica ed anarchica di non aderire, liberamente, all’Amore ed alla armonia, ma di porre se stesso, il proprio piccolo “io sono”, quale centro di attrazione ed oggetto primario di amore. L’uomo, decidendo di fare l’esperienza della materialità, sceglie dunque il male, non perché voglia in realtà il male per il male, ma perché così facendo afferma la propria libertà dal suo Creatore. Egli tende così a realizzarsi egoisticamente come piccolo “io” indipendente e non come piccolo “io” posto in funzione organica con il Tutto. Ma l’allontanamento dalla Fonte comporta il dolore, il male, il peccato e, portato alle estreme conseguenze, la perdita della coscienza di sé, la cosiddetta morte “secunda”. Ed invero il singolo che pervicacemente permanesse nella sua scelta di ribellione da ultimo si troverebbe definitivamente al di fuori di Dio, quindi…nel nulla, avendo perduto definitivamente la propria autocoscienza.

Ecco dunque il perché ed il significato del dolore nel mondo.

Scrive Pietro Ubaldi nell’opera già ricordata:

Ecco le origini del dolore e del male. Il volto della creatura è rimasto sfregiato da questo segno funesto; essa continua a sanguinare ancora del suo primo urto contro le colonne del sistema. L’essere è caduto, ma esse non sono crollate. La Legge è rimasta intatta e il dolore è divenuto il segno dell’anima ribelle. Esso è lì a ricordarle la sua grande tragedia. Essa vorrebbe dimenticare abbandonandosi al suo non spento, originario istinto alla felicità. Ma tra questa e lei vi è una nube che solo una lunga fatica di reintegrazione potrà dissipare. Essa vorrebbe riposare e il dolore la punge e la ridesta alla dura realtà ed allora, solo allora, essa si sveglia e si domanda: perché? Perché nascere, esistere, soffrire? Chi gode e sta bene non si domanda nulla e resta addormentato nell’incoscienza. Ecco, dopo la genesi del dolore, la sua funzione che lo fa strumento di evoluzione. La colpa ha generato essa stessa il rimedio, la malattia ha partorito la sua medicina. Il dolore nato dalla rivolta schiaccia ed umilia inducendo all’ubbidienza alla Legge, così risanando l’essere. Duro, ma salutare dolore, che gli involuti maledicono perché non ne comprendono la funzione creatrice e che i santi abbracciano non per pazzo masochismo, ma perché esso era per loro la scala per salire. Salutare è lo sforzo che spinge al lavoro benefico per la riconquista del paradiso perduto. Parliamo anche del dolore di tutto l’universo e non della sola terra, di quel dolore cosmico di cui quello dell’umanità non è che un atomo e un attimo, di quel dolore a cui Dio stesso, così immedesimato per Amore nelle Sue creature, deve voler prendere parte. Così fu che il Padre mandò in terra Cristo perché desse con il Suo sacrificio all’umanità il più grande impulso di redenzione. Prima la rivolta origine del male, poi il dolore del mondo, suo mezzo di recupero, l’aiuto dall’Alto su questo duro cammino, la redenzione ottenuta a mezzo del sacrificio insegnatoci da Cristo. Ecco i concetti connessi a catena che confermano queste teorie.

L’umanità sta oggi percorrendo il suo cammino di ritorno. Solo così si può comprendere il concetto di redenzione e il significato della venuta e del sacrificio di Cristo in terra, così centrali nella storia dell’umanità. Solo così si può comprendere come mai è che il dolore salva e il sacrificio redime e perché quindi era necessario che Cristo soffrisse. Con la Sua passione Cristo ha voluto, di fronte al Padre, prendere su di sé il peso della correzione del primo errore della rivolta”.

La caduta era stata dunque non solo prevista, ma anzi concepita, sia pure come possibilità.

A fronte della ipotesi della “caduta” Iddio ne previde anche la terapia: la possibilità di risalita delle creature, risalita liberamente scelta per il ritorno consapevole e volontario alla Luce di quel Paradiso perduto.

 

In una comunicazione del 1993, in risposta ad una domanda, sul significato del dolore nel mondo ci venne risposto (in termini sostanzialmente analoghi a quelli usati da Ubaldi) nel modo seguente:

Domanda: ma perché la necessità del dolore, perché la Croce, perché tutto deve essere terrificante? C’è una colpa profonda?

Seneca: Perché si vede il dolore nell’aspetto di sofferenza umana. Il tesoro della libertà passa dalla coscienza di sé, poi del mondo, poi di Dio. La coscienza abbisogna della conoscenza. La conoscenza non è del mondo in visione teoretica ma è conoscenza dello sforzo di raggiungere la libertà di “sé” da quell’ “Egli” che in dono ci diede la libertà. La libertà è allontanamento dall’ “Egli” poiché solo col permesso di allontanarsene si può scegliere di riavvicinarsene. Lo sforzo è caduta nel “non amore”: se infatti Amore è unità tra “Egli” ed “egli” che vuole partito da “Sé”, è necessario staccarsene con trauma voluto, concesso, ma trauma. Di tale distacco si soffre.

E della lontananza si sente l’ombra ed il freddo. Solo attraversando il non amore della volontà di essere liberi e distaccati da “Egli” si comprende l’armonia eterna e perfetta dell’ “essere” nell’ “Essere”.

Nel 1996, nel corso di un’altra comunicazione, venne affrontato, ancora una volta, il tema del dolore:

E si arriva al dolore! Cosa c’entra esso con l’armonia? Esattamente quanto c’entra il vostro prendere sforzo e cercare di leggere quanto scritto. Esso è perfezione della conoscenza. Se Iddio fosse stato sereno ed immobile a guardare il creato avreste avuto ogni buon diritto a ribellarvi a tale armonia, rectius, disarmonia tra un Dio sereno e perfetto e voi sofferenti. Ma Egli si fa dolore in Sé come Figlio e in voi come realtà, forma attuata, di Esso. Come dire – sforzatevi di intendere ciò poiché ogni sforzo impossibile ad umano risulta – come a dire che non può esservi onniscienza se non – attenti- conoscenza di Sé che è il Tutto e di una sorta – ma è solo un modello mentale per voi – di anti Sé, e cioè di ciò che sarebbe ciò che non è se fosse (non però essendo ‘ché nulla è al di fuori di Lui)…  Il dolore, dunque, è realtà, come il male che la libertà di seguirlo vi porta a seguire.

Il più difficile momento della comprensione è così la libertà. La conoscenza cioè della propria capacità di partirsi dal Sé primigenio acché il Sé primigenio conosca se stesso (e la possibile idea del non-Sé) per mezzo del sé.

 

Dio, dunque, è il Tutto. Nulla è al di fuori di Lui. Il male e il dolore, quali vediamo regnare nel mondo, sono il frutto della libertà della creatura di operare una scelta anarchica, di allontanamento dalla Fonte.

Dio è AMORE. Ma la nostra esistenza umana è connotata dalla mancanza di amore. Nel nostro mondo Dio è nascosto. Conosciamo la realtà non quale essa è, bensì quale sarebbe se Dio non ci fosse. Solo provando il dolore dell’assenza di Dio si può desiderare di intraprendere e proseguire la strada del ritorno alla Fonte primigenia. (Ecco il perché del Deus absconditus di Pascal). L’Uno Tutto (in sé già perfetto, al di fuori del Tempo e dello Spazio) attraverso l’esperienza della caduta e del ritorno delle creature si realizza anche nel suo lato di ombra, nella pienezza di Bene e Male. In difetto, sarebbe stato privo di tale parte antitetica ma complementare e necessaria alla realizzazione dell’Uno perfetto e non mancante di nulla.

Ma l’allontanamento del figlio dal Padre è solo apparente. Il Dio d’Amore non abbandona mai le sue creature.

Scrive Ubaldi: “Quanto fondamentale nel sistema sia tale principio dell’Amore, lo prova il fatto che Dio stesso, nel suo aspetto immanente, segue il sistema crollato per risanarlo e mai abbandona la Sua creatura, per quanto ingrata e ribelle”.

E venne il Cristo, l’Angelo (( 4. Desidero usare il termine Angelo per indicare lo Spirito altissimo e preclaro di Gesù che fu Nunzio agli uomini in prima persona (n. d. a.). ))che volle offrirsi per la salvezza dell’uomo, l’Angelo che volle interpretare la volontà d’amore del Padre, l’Angelo che seppe così farsi Figlio divenendo come il Padre, per ciò pagando un terribile prezzo di dolore e di sangue. Così l’Angelo scelse liberamente di farsi uomo e liberamente abbracciò la Sua croce di legno così come Suo Padre abbraccia la Croce Cosmica del dolore dell’Universo per la risalita e la ricomposizione del sistema nel Suo seno luminoso.

Ciascuno di noi può liberamente seguire la strada tracciata da Cristo per la riunificazione al Padre.

In una comunicazione del novembre 2011 le Guide hanno ripreso il tema del Dolore, parlandoci questa volta, in particolare, del Dolore di Dio:

 

Ed ancòra una volta ritornando al Dolore. Capite? Il Dolore è nella Natura e nell’Uomo perché è nell’altra parte di Dio (l’ALTRA”). Ma Iddio ha Egli stesso moto di Ribellione (sacra ed immota, perfetta Ribellione),  potremmo dire – senza tuttavia sfiorarne il Mistero – che trattasi di Ribellione contro Sé Stesso.

Attenti, perché stiamo sfiorando la blasfemia se non intendiamo per come devesi il tutto.

‘Ché Dio non si ribella odiando il dolore come l’uomo quando, nella tristezza o nella pena di cui non vede uscita, ritiene ingiusto e detestabile il momento del dolore; ma in Dio è ribellione amorosa ed amorevole verso Sé Stesso – anche alla Nostra Fantasia qui manca Forza – che, pur CompiacendoSi del Tutto Perfetto in Cui è e Che è,  non vuole allontanarsi da Sé, né migliorare Sé (perché già perfetto), ma far ‘sì che le creature del Suo essere Tutto il pensabile e realizzabile (dunque anche nel doloroso vivere) avvertano meno tale condizione. Non per averne minore coscienza, ma per averne minore percezione di sofferenza. Non è facile sondare un siffatto Mistero.

Nonostante, diremo ancòra che in Dio v’è il rifletterSi entro Sé Stesso ed il guardare in piena Coscienza dentro il proprio ESSERE DIO E L’INCONTRARIO (ancòra un ulteriore sforzo): da tale Suprema Riflessione nasce in Dio (ma siamo sempre – badate – nello sfiorare appena il Mistero, ed in modo pressoché banale per farlo comprendere alla Ragione), l’Amore che muove alla Ribellione e conduce all’Azione del farSi Uomo per entrare nel Dolore e vincerlo. Insomma: se Dio è il Dolore non Ama il Dolore; ma se non ama il Dolore vuol vincere il Dolore facendosi Dolore. Così dicendo: Io ho vinto il mondo; voi potete, con Me, vincerlo. Ed Io – disse – sarò con voi ogni giorno della vostra vita.

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