CAP II

 

Struttura dei corpi: Ordinario, Sottile, Causale, Grande Sé.

 

Da una comunicazione del 2006

 

 

Al di là allora delle definizioni e dei nomi che vorremo dare, continuiamo col dire che se il corpo – lo chiameremo “ordinario” – va verso la sua fine naturale, il corpo che chiameremo “Sottile” permane verso la proiezione che ultima confina con il corpo che chiameremo “Causale”.

Sono diversi modi di computare, con il cervello computazionale, l’essenza e l’Essenza della realtà.

Non a caso il confine fra i tre corpi di cui detto è sfumato ed evanescente come luce che trasfonde fra tre strati di vetro; o meglio di lastre pellucide.

Quando noi lasciamo il nostro corpo ordinario, passiamo – valga per tutti il saperlo – da una condizione di presenza fisica sul mondo che siamo stati invitati a vivere, ad una condizione di contatto più permeante con il corpo Sottile che rappresenta il nostro modo d’essere noi stessi. Ma il corpo ordinario è agganciato a ciò che in vita ha percepito come proprio e verso cui è stato indirizzato dalla stessa realtà della materica essenza.

Esso corpo ordinario – si badi – non è qualcosa di distaccato, ma è qualcosa di distaccabile al momento in cui è il momento ed il Tempo!

Se il corpo Sottile prende coscienza della perdita è soltanto perché il Causale ha imposto la perdita. Ma il Causale non è padrone e signore dei tre corpi – sé compreso – ; esso e tutti insieme i tre sono governati dal Sé che li coordina (diremmo in termine computazionale).

Ed allora la realtà che viviamo è composta dai tre strati di lastre pellucide, e nel – per così dire – “Guardaroba” dell’Eternità vi sono soltanto Corpi Causali; quelli, cioè, che saranno chiamati, se voluti, dai Grandi Sé.

Cosa vuol dire tutto ciò?

Vuol dire semplicemente che la nostra percezione umana, finché crediamo, “crediamo” di vivere nel pianeta scelto (fra i tanti) è naturalmente correlata al corpo ordinario. Esso è correlato e composto da tutto ciò che l’attrae e verso cui indirizza l’andare. Ma l’ordinario è guidato dalle emozioni che sono collegate, anzi inserite, nel Sottile, il Quale è il vero corpo della realtà come umanamente ogni uomo riconosce nel rapporto d’affetto, antipatia, stima, interesse, e quant’altro con ogni altro uomo. Infine, a meglio specificare il tutto, v’è il Causale che – siccome il termine qui usato indica con precisione – è fonte e scaturigine “causale” d’ogni azione che dal Sottile viene decisa perché l’ ordinario la compia.

Ma a complicare le cose – interviene il Sé. Il Sé non è entità che penetra i tre corpi, o li indossa come maschere per dimenticare d’essere Partizione del Grande Unico SE’. Esso è il – come dire – “pilota” del “viaggio” , il quale, scelto il mezzo e tutto ciò che il mezzo potrà compiere, intraprende effettivamente il viaggio. E non beve nulla dal mitologico fiume Lete (dunque non ha oblio di alcunché), ma soltanto chiude ogni possibilità d’interferire con la triade nella quale e con la quale ha deciso d’intraprendere il viaggio.

Così il bimbo che nasce! Non più, però il giovinetto, ed ancor meno l’adulto, né meno ancora il vecchio. Ma soltanto se il viaggio ha compiuto il percorso previsto e – possibilmente – programmato.

In altri termini è durante il viaggio che, condotto dai tre mezzi intersecatisi fra di essi, il Sé perviene a migliore coscienza di “se stesso” prima e di “Se Stesso poi”.

La possibilità che il progredire del viaggio dia spazio alla coscienza del Sé non deriva dal viaggio stesso e dal compimento di esso, ed infine dal bilancio che il Sé fa del viaggio. La coscienza del Sé deriva invece dalla “Comunicazione” costante e progressiva con i tre mezzi che ha scelto antecedentemente al viaggio.

Se – ad esempio – Noi abbiamo scelto mezzi agili e ben attrezzati, ed armati e di cornucopia di doni ricolmi, e, dopo esserci immersi nella realtà materiale del vivere materico abbiamo appetito il Cielo, allora va da sé che il Nostro Sé ha comunicato con i tre mezzi perché l’esperienza di tali tre mezzi ha permesso detta comunicazione.

Insomma non vi sono compartimenti stagni ma un’unica realtà di intersecazione “non Computazionale” che alla fine è quello che – si permetta la perifrasi – è il “Grande Gioco del Grande Eterno Fanciullo” che è l’unico Essere che perennemente, ed apparentemente immutabilmente, ma diveniente eternamente, E’!

Ora ritornando al nostro problema che è quello della realtà che preme al corpo Sottile (si badi non all’ordinario carco di gravame di sensi e pulsioni istintuali), che è, per se stessa definizione, albergo delle emozioni, degli apprezzamenti di valore morale, del dolore e della gioia, ed in fine anche dell’amore umanamente inteso, v’è da dire che esso, al momento della morte del fisico, si distacca, o per meglio dire si porta verso migliore evanescenza, in una dimensione che si pone al confine fra il tempo materiale umano e quello immobile della realtà: intorno (a seconda delle aggregazioni da vincere) ai 40 giorni terrestri; tale tempo apparrebbe all’uomo incarnato nel suo ordinario.

E’ questo il tempo dell’umano registrare il tempo che permette al Sottile di scollarsi dall’ordinario.

Succede che poi il Causale pretende a sé il Sottile, per portarsi infine (quest’ultimo n.d.r.) verso il Causale che tutto tale processo governa (sono semplificazioni che, dinanzi al reale incedere del processo risultano del tutto riduttive ed incomplete).

Eppure noi sappiamo bene che il problema che “ci” preme è il primo passaggio che individua lo spegnersi del corpo ordinario. Ed esso passaggio viene stabilito dal Sé per il mezzo del Causale attraverso l’intervento del Sottile.

I mezzi perché l’ordinario passi allo scollamento dal Sottile sono molteplici: v’è lo spegnersi semplicemente, e v’è il trauma. Altro non è dato e tutte le morti umane si ricongiungono a tali fattispecie.

Se v’è spegnersi v’è chiusura senza soluzione di continuo di un ciclo vitale, se v’è trauma v’è, invece, il troncare quella esperienza per due ordini di ragioni: o il ciclo è stato completato, e quindi si continuerebbe a vivere umanamente in giostra inutile, oppure il ciclo non serve più al Sé che se ne vuole disfare per progredire d’un balzo verso altro.

Non è caso di soffermarsi sui mezzi: ma all’umana voglia di conoscere l’abisso del mistero diremo, che – ad esempio – un modo per sciogliere lo Spirito dall’esperienza ormai conclusa, o non più utile, è quello di Or, la moglie di Lot (si rammenti la genesi biblica). Essa guardando verso Sodoma si trasformò in una colonna di sale. Dunque il guardare verso la materia e la vita terrena immerge nel sale, gonfia di sale trasforma in sale. All’incontrario, il perdere la realtà materiale e lo scollarsi dall’ordinario è…perdere sale!

 

 Cosa accade dopo la morte del corpo fisico?

Da una comunicazione del 2008

“(…) È quanto accade dopo il tunnel e la comparsa della Luce nelle anime che stavano per attraversare la soglia e nel mondo umano sono ritornate a raccontarlo.

Ciò VERUM EST!

Nell’esperienza di distacco dal corpo – e chi l’ha vissuta l’ha raccontata – v’è sempre una Luce (chi la definisce il Cristo, chi l’Angelo, chi in altro modo); e Questa Grande Luce chiede: “Sei pronto per morire, e passare verso la Casa?”; poi chiede: “Cosa puoi mostrare di ciò che hai fatto?”; poi chiede ancora: “Cosa ti sembra di sufficiente, fra ciò che hai fatto?”. Come in un rotolo con immagini in movimento, tutta la vita e le cose buone e le male scorrono allora, mentre accanto le Figure dei cari che ci furono compagni e fratelli nel mondo terreno, guardano e… sorridono. Non v’è condanna o minaccia nelle Parole della Luce; non v’è paura in chi deve dare risposte, anzi “vuole” dare risposte (e così raccontano).

Bene, quell’ “esame”, che non è tale, serve a farsi Perdonare.

Nessuno mi giudica salvo me stesso; giudicandomi, saprò scegliere, per la prosecuzione di me, il cammino più appropriato alla crescita della mia coscienza; così spesso è scelta di ritorno sul pianeta attraverso una rinascita in esistenza di dolore vuoi per espiare vuoi per amore verso chi ha necessità di capire.(…)”

 Il Perdono

Alla vendetta per il torto ricevuto, al paradigma “Occhio per occhio, dente per dente” di biblica memoria, il cristianesimo ha sostituito il “perdono” insegnando all’umanità come fare un grande balzo in avanti sul piano morale e spirituale.

Troppo spesso sentiamo profferire da taluno: “Nonostante il male che mi ha fatto io perdono quell’uomo!” o, al contrario: “Non lo perdonerò mai!” ed ancora: “chiedo giustizia per mio figlio ucciso da quell’uomo!”. Affermazioni di tal fatta sono quasi sempre l’effetto di una pulsione istintiva ed emotiva… attengono alla ricerca di qualcosa che ripristini un equilibrio turbato, denunciano l’aspirazione in costoro ad una giustizia umana, che molto si avvicina alla vendetta, nella speranza che questa sia di linimento al dolore che si avverte in conseguenza del male ricevuto.

Ma ciò attiene a questioni sociologiche o politiche. Altro è scandagliare tale questione su di un piano animico.

Come si diceva, talvolta, sia pur di rado, abbiamo sentito taluno profferire : “Si, io di cuore, perdono l’assassino di mio padre!”, un gesto davvero nobile che però vuole significare: “Non voglio legarmi a costui col nutrire nei suoi confronti sentimenti di ostilità e di odio, anzi lo compatisco perché si è macchiato di un orrendo crimine che tanto dolore mi ha provocato”. Eppure dobbiamo affermare con decisione che il perdono non compete a nessun uomo! Esso presupporrebbe la capacità di discernere in senso assoluto il giusto dal non giusto, impensabile cosa, ‘ché solo in Dio è riposto tale potere.

Perfino Gesù, l’Unto, sulla croce non perdonava i suoi aguzzini, ma invocava per loro il perdono da parte del Padre; l’Unico cui esso compete.

E’ del tutto evidente quanto sia sottile il passaggio (non a me è concessa facoltà di perdonare, ma al Padre; ed Io in NOME del Padre perdono te, o, meglio chiedo al Padre di perdonarti); a me rimane la sola facoltà di perdonare un unico e solo uomo al mondo:  me stesso!

E tale passo – come ci venne insegnato dalle Guide –  è propedeutico al cammino iniziatico:

 

“(…)Per seguire l’influenza che giunge dall’Alto – ‘chè questo, in verità è il senso dell’ammaestramento iniziatico – bisogna però, prima – direte – avere perdonato il fratello. Non è così!

Bisogna prima riuscire in un còmpito ben più difficile ed aspro (cui il perdono del fratello è conseguenza): bisogna prima PERDONARE SE STESSI.

Cosa è quest’affermazione che qualcuno potrebbe conoscere, ma che invero è ricoperta da nube di dubbio ed oscurità?

Incominciamo a dispiegare: un dispiegare che è soltanto socratico, maiuetico, e che poi dovrà essere proseguito da voi, da ciascuno di voi per se stesso.

Io non posso farmi Discipulo se non mi scelgo per essere tale; ma non potrò scegliermi quale Discipulo se non mi ritengo degno d’esserlo; e non mi riterrò degno se non mi sarò PERDONATO!

Ma cosa vuol dire perdonarmi? Attenzione: non vuol dire essere indulgente con le mie colpe; non vuol dire neppure avere capito che non voglio più erroneamente agire. Significa capire che quella che mi ascrivo è una Colpa. Ed è Colpa grave! Perché Colpa in Amore. Fate tuttavia attenzione: potrei anche ingannare l’inconscio, ma non la coscienza. Potrei dire a me stesso: ho tradito l’amico; non lo farò più perché ne ha sofferto. Ancòra non mi sarò perdonato.

Perdonarmi vuol dire analizzare me stesso guardandomi dentro; poi , vuol dire avere la chiarezza dell’azione che sto analizzando e definire se la colpa è dovuta a mia povertà di conoscenza, a mio disinteresse per l’altrui sorte, a mia sopravvalutazione del mio essere rispetto all’altro, a mia violazione della “Rita” (normalità, anche – qui – come norma); ed il Diritto vostro saprà riassumerli nella Negligenza etc.((1. Il reato è da definirsi “colposo” se è conseguenza di negligenza, imperizia o imprudenza dell’autore del fatto.))

Quando l’analisi sarà stata fatta bisognerà adottare un “metro” per misurare la colpa; ed esso metro – badate – sarà del tipo che vorrete scegliere; ma dovrà essere quello che, esaminata la colpa, e pronunciato il verdetto, dovrà darvi “acquietamento dell’anima”. Tale acquietamento non lo potrete raccontare alla ragione, ma soltanto all’Anima, al vostro IO Universaler, cioè. Se il vostro “IO” si acquieterà, avrete colto nella giusta analisi della Colpa, e conseguentemente vi sarete perdonati perché avrete “Riconosciuto” (senza inganno con voi stessi) la mala actio in Amore. Tutto ciò, non per una colpa, ma per TUTTE LE VOSTRE COLPE DI TUTTA LA VOSTRA VITA. Soltanto dopo il PERDONO di Voi a voi stessi, sarà possibile che Vi scegliate per essere Discipuli. Quindi possiate divenire sacelli di accoglimento del Vero senza più Inquietudine dell’Anima che con le sue scosse della coscienza vi avrebbe impedito di scegliervi.(…)”.

 

Ma ulteriori considerazioni sono da fare in tema di “perdono”.

Se ho ricevuto un’offesa dal mio simile – non potendo io perdonarlo poiché, come abbiamo visto, il perdono compete solo al Padre Celeste – come dovrò agire?

Il comportamento più corretto sarà quello di “dimenticare” l’offesa subìta; sarà quello di cercare di far cadere nell’oblio della memoria e della coscienza il torto che mi fu inflitto. E’ cosa ben difficile a farsi invero! Sarà tuttavia un po’ meno difficile se cercherò di trovare giustificazioni all’operato del mio offensore. In tal modo abbandonerò il mio offensore alla giustizia divina e non mi legherò karmicamente a lui. Dirò dentro di me: “Non cerco vendetta, non cerco umana giustizia, lascio che sia Dio a giudicare quell’individuo che tanto dolore mi procurò”.

Di certo questo sarebbe il comportamento del buon cristiano o del pio, ma non dell’iniziato ai Misteri il quale potrà scegliere altro ed ancor più elevato comportamento: impedire che sul piano sottile si attui lo strappo provocato dalla cattiva azione. Sarebbe come prevenire il danno non per colui che lo subisce, ma in favore dell’economia del Cosmo. Se io, in qualità di vittima, rivolto a Dio avessi la forza di affermare convintamente, decisamente: “Signore, quel torto che mi fu inflitto non è tale per me, non lo considero un danno e dunque nessuna colpa va imputata all’offensore!”, bene, se così avessi la forza di agire, avrei impedito addirittura il prodursi dello strappo ed avrei agito santamente anche, e soprattutto, nei confronti del fratello offensore che nessun debito da riparare avrebbe innanzi alla Giustizia di Dio potendo affermare: “Non c’è colpa in quella mia azione poiché la mia vittima non ne fu ferita!”. Con tale comportamento avrei anticipato e prevenuto il “Giudizio divino” che, pertanto, diventa superfluo essendo io stesso, quale danneggiato, il titolare del, per così dire, diritto risarcitorio.

La nostra essenza vista come un tempio.

 Alla luce di quanto fin qui esposto dobbiamo sforzarci di uscire da noi stessi per poterci osservare ed intravedere quel complesso e meraviglioso, miracoloso ingranaggio di cui siamo costituiti.

Dobbiamo sforzarci di vedere noi stessi come un tempio.

Già parlammo nel libro “La Luce del Sentiero” di un tempio. Quella immagine ci permise di realizzare un edificio costituito da poderose colonne. Ciascuna di esse, come si ricorderà, ci ha consentito di apprendere e di conoscere i temi fondamentali della nostra esistenza e come opportunamente intenderli per migliorare noi stessi. Se abbiamo proficuamente meditato su quelle colonne potremo ora costruire non “un” tempio ma il “nostro” Tempio, ed osservarLo per prenderne migliore coscienza.

Per fare ciò occorre sognare… anzi seguire passo passo il sognatore come più avanti verrà descritto.

Il Sogno del Tempio

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… Così, nel sogno d’una notte vidi un Tempio, maestoso e bianco, posto come fortezza a riposare su collina da dolci declivî disegnata.

M’incamminai, di svelta lena, per vederlo più da presso; ‘ché sua distanza, dai miei piedi in marcia, infinita pareva, per infinito prato sotto infinito e calmo cielo che, d’intenso azzurro tinto, sol qualche chiara nube in sé ospitava.

Giunto che fui a poco d’un dipresso, cinque colonne, della sua facciata che mi si parava a fronte, vid’io dritte a sorreggere architrave gigantesca con sopra un alto fregio che, di scritture adorno, sostegno era, elegante, a triangolar cornice con all’interno impresso a sbalzo un nome che leggere non seppi.

Fatto ch’io ebbi dell’edificio lentamente il periplo, compresi infin ch’esso insisteva su base quadra da quattro gradi fatta, ciascun d’un braccio per altezza e ad angoli rotondi; eretto com’era ad ogni canto da duplici colonne che di ionico disegno in marmo bianco su parallelepipedo d’identica natura erano poste. Questo, che sulla quadra base poggiava una delle lunghe facce, e su minore suo asse verticale era girato a troncar dei quattro gradi gli angoli, guardava da ciascuna di sue corte pareti laterali verso colonna dorica di biancheggiante pietra che, equidistante dalle due gemelle coppie sull’ideale retta che queste congiungeva, e di maggior circonferenza delle due germane, dalla gran base quadra per molti cubiti s’ergeva a tener ferma ciclopica architrave.

Poi, fatto accesso, per i quattro gradi, all’ipòstilo salone che, immenso e silenzioso, pavimentato era di quadre lapidi di bianco marmo, inscritte in cerchi che luminose facean rote celesti tra di esse intersecate, vid’io abitato il centro della piazza da tre grigi piastroni circolari. L’uno sull’altro, altrettanti formavan gradi di due bracci alti, sul supremo dei quali era marmoreo sasso, che, imponente e cubiforme, facea d’Atlante l’umile servizio a corinzia colonna d’ancòr maggior circonferenza delle doriche e da rossastre venature offesa. E su questa, altra corinzia stava, di stesso corpo ma di più lunga linea e da gentili strie d’azzurro percorsa fino in cima, dove suo capitello, a nobile corona, i vertici incontrava convergenti delle triangolar cornici magne e di corrispondenti quattro lor minori; tutte così disposte in un solenne inchino a ricrear mistero di singolar piramide.

Disperso, ormai, nella gran sala, l’animo mio decise allor di ritrovare il passo nel verde prato da cui l’edificio inesplorato aveva scorto. Così, raggiunta nuovamente la primigenia vista che la facciata di mio ingresso offriva, guardai col capo verso la sommità del sacro Tempio, e lì altro cubo vidi: bianco di biancheggiante e luminoso marmo, di dimensioni pari ad una di dieci partizioni dell’ipòstilo, la base stabilmente assisa avea sul vertice della gran piramide dall’otto cornici generata. E lentamente, interminabilmente, tale superno cubo sull’asse verticale rigirava; ora in un senso, poi, rallentato il moto, riprendeva all’incontrario, ed ancòra poi all’inverso. Sul cubo, infine, quasi sospesa, elegante e tortile colonna stava, che, piccola a fronte delle sue sorelle, in dorati tralci di vite avviluppata per tutta la sua altezza, il capitello immerso lasciava immaginare entro gran nube… sovrastante il Tempio e di sfolgorante luce colma.

Ma gli occhi miei, che di materia umana, miseri, son fatti, colì non fur capaci di tener la mira; e, nell’abbacinante nube, il sogno si annegò… così restituendo la mia mente al mondo.

Sud dell’Octopuntuta

 

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Il Tempio
Il Tempio

Bene, a questo punto occorre dare significato ad ogni parte descritta.

Anzi, ciascun lettore dovrebbe per proprio conto sforzarsi di attribuire significato a ciascuna delle parti dell’edificio sacro. Quando ciò avrà compiuto, dovrà prendere coscienza che il tempio è il suo proprio tempio, e non d’altri: sicché le colonne che vede sarà lui e lui solo a vederle, e le colonne che alla sua vista oggi si mostrano, non sempre saranno visibili, ma oggi talune e domani tal’altre, domani dopo tutte… chissà…? Il tempio, in verità, se ha lo scopo di rappresentare, in certo qual modo,  lo “schema” di ciascuno di noi, sarà altresì cartina di tornasole per poterci indicare quanto oggi si veda di essa costruzione, e così per ogni “oggi” della vita di ognuno.

Il tempio in tal guisa mi dirà se ho visto la colonna dell’amore, della carità, dell’accoglienza e così via… , in altri termini potrò avere coscienza di me stesso e cioè se “oggi” sono stato sufficiente in amore, in accoglienza etc.

La costruzione sacra vuole assurgere a simbolo del cammino della nostra coscienza e coscienza di conoscenza. Così esso tempio è da individuare secondo tappe e gradi.

E’ in realtà un cammino iniziatico quello che viene descritto qui di seguito; ma tale percorso non è precluso a nessuno. Esso è di contro accessibile a chiunque intenda con serena determinazione intraprenderlo.

 

1) La prima tappa è l’ingresso nella struttura; superare i 4 gradini per entrare è d’obbligo. Ma tale fase è privilegio di cui fruisce già ciascun uomo.

2) Il prendere coscienza della vita nella materialità implica sentirsi individui, ovverosia entità separate dal Tutto e dagli altri simili. E’ il momento in cui l’ “ego” urla la propria essenza e vuole predominare. Iniziano le esperienze individuali e collettive; esperienze che mi inducono a percepire me stesso come soggetto ma anche come appartenente ad un gruppo: gruppo familiare, gruppo sociale, nazionale o facente parte di una congregazione specifica (come il soldato nell’esercito, ad es.); quindi, camminando lungo il pavimento del tempio, comincerò a vedere, e a conoscere le colonne che lo sostengono e su una in particolare mi soffermerò: quella del dolore! Con sorpresa costaterò che essa si innesta, sormontandola, su quella dell’amore.

Il soffitto del Tempio((2. Si rammenta che per la Massoneria il Tempio è perennemente in costruzione e pertanto viene rappresentato senza cupola. L’edificio, mancante di copertura, rimane così aperto verso il cielo, a ricordare il lavoro diuturno dell’adepto che deve impegnarsi nell’edificazione per il suo completamento; infatti se la volta venisse realizzata, il tempio non necessiterebbe di altro ed il costruttore avrebbe ultimato l’opera.)), ossia la parte più elevata di esso, è costituito da una struttura che può simbolicamente aiutarci a capire noi stessi.

Innanzitutto notiamo che essa è, non a caso, a forma piramidale (con tanto di “piramidion” alla sommità). Il termine piramide ci perviene dalla parola greca pyramis che però era riferita ad un dolce a base di grano che ne ricordava la forma. Il suo vero appellativo era “MER” = MeR ove Me è da intendersi come “il luogo” e R “verso l’alto” dunque “IL LUOGO CHE VA VERSO L’ALTO”, verso il sole, verso il divino, verso RA (disco solare egizio), dunque verso Dio.

L’intera struttura ha pertanto lo scopo di puntare, per così dire, verso l’alto, verso la Divinità, di proiettarsi cioè verso ed oltre quella nube.

Ma la cupola piramidiforme simboleggia altresì il GAN EDEN (Il biblico Giardino dell’Eden) il mitico luogo dai cui partimmo quando la coscienza era ai suoi albori, e verso cui dobbiamo fare ritorno ricchi di esperienza terrena e consapevoli della lontananza dalla vera patria.

Il paradiso perduto può essere ritrovato poiché è il luogo in cui ha sede il “Cuore” dell’uomo. Ed il giardino è rigoglioso poiché un fiume centrale (il Cristo) dà origine e vita ai 4 che lo attraversano per intero – secondo taluni disegnando una croce – lungo l’asse dei 4 punti cardinali: Tigri, Eufrate, Pision e Ghion. Detti fiumi, secondo una concezione medioevale, erano quelli che portavano oro e pietre preziose, simbolo di ricchezze di conoscenze e spiritualità; dunque fiumi che con la loro acqua di sapienza e coscienza irrìgano e fertilizzano il Giardino.

Se dunque la volta del tempio rappresenta il paradiso terrestre, la colonna tortile posta al centro non può che rappresentare l’albero della Vita il cui frutto non è stato ancora colto e mangiato da Adamo.

Beati coloro che lavano le loro vesti, così da poter mangiare dall’albero della Vita ed entrare attraverso le porte nella Città” (Ap.sse : 22/14-15).

Fin troppo, potremmo dire, la piramide è stata accomunata dagli egizi allo Zed, o Djed (altresì definito colonna di Osiride) ed alla croce ansata o croce della Vita (Ank egizia). Sicché, per associazioni, si può giungere intuitivamente ad identificare lo Djed con il biblico albero della Vita e dunque con la colonna tortile posta alla sommità della struttura piramidale.

Lo Djed o Zed egizio
Lo Djed o Zed egizio

 

Ma la colonna tortile – che già oltre la dimensione tempo si pone – affonda il suo elegante capitello nella nube. Nube che cela alla vista una dimensione che è ignota alla nostra umana coscienza.

La Nube

La nube vuol indicarci  l’ “ADE” (o Erebo), quel luogo mitologico ove vagano le ombre dei morti nella carne, luogo che nell’Apocalisse è destinato, assieme alla morte prima, ad essere (per coloro che hanno raggiunto l’evoluzione spirituale) gettato nello stagno di fuoco. Ciò sta ad indicare che colui che si è evoluto non ha più necessità di reincarnarsi, ma potrà accedere ai piani superiori dell’Essere. Il ciclo vita terrena-morte fisica- accesso all’Ade/nube-reincarnazione-morte-Ade non ha più ragion d’essere (il “samsara” o ciclo buddista delle rinascite ha termine).

La Nube è allora il luogo (non visibile)((3. Nel libro tibetano dei morti viene chiamato “Bardo”.)) nel quale si posiziona il corpo Sottile quando il fisico muore; esso Sottile infatti si colloca in quella regione evanescente prossima al non-tempo cronologico umano, che è rappresentato dal sottostante piccolo cubo rotante.

Lo stesso Platone ci parla di una nube luminescente costituita da un vorticar di fiamme che avrebbero lo scopo di trasportare in terra le anime, ormai purificate, di coloro che devono reincarnarsi. Quivi scelgono la loro prossima vita; quindi, dopo aver bevuto l’acqua del fiume Lete, dimenticano le loro trascorse esistenze terrene.

Secondo le teorie antroposofiche, Steiner definisce detto luogo – o per meglio dire detta condizione – col termine sanscrito Devachan (lett.: posto felice) .

 

“Egli le disse: “Donna, perché piangi? Chi cerchi? “Quella, pensando che fosse l’ortolano, rispose: “Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove lo hai portato ed io lo andrò a prendere”.  Le disse Gesù: “ Maria!” Quella voltatasi gli disse in ebraico: “Rabbunì”. (che significa Maestro). Le dice allora Gesù: “Non mi trattenere più oltre perché non sono ancora salito al Padre. Va’ invece dai miei fratelli e di’ loro: Ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. (Giov. 20/15-18). Secondo una diversa traduzione del testo greco, Gesù avrebbe invece detto a Maria: “Non continuare ad abbracciarmi, come se tu mi volessi trattenere, avendo tu ancora altre possibilità di vedermi, prima della mia ascensione. Ora va’ a dire ai discepoli che sto per salire al Cielo, anziché essere trattenuto nel soggiorno dei morti” (Da intendersi: “Sto per accedere al Regno senza  trattenermi nella Nube”).

 

Facciamo ora delle considerazioni.

Lo spirito di Gesù cala attraverso la nube (energie egoiche) e si incarna nel figlio di Maria; nasce quindi come qualunque creatura umana e, come tale, possiede sia il piccolo “” che il grande “”: perciò figlio dell’uomo poiché in un corpo umano Egli si era incarnato, incarcerato.

E’ proprio in tale condizione che, in piena libertà, farà la sua scelta: rifiutare la missione che si era proposto prima di nascere o accettarla e portarla a compimento? La scelta finale, non facile come sappiamo, fu operata nel Getsemani. Egli sentiva il Suo Spirito che pressava. Ma era dilaniato dal suo essere in tutto e per tutto figlio dell’uomo con l’istinto di conservazione, la paura del dolore e l’orrore della morte fisica che lo tormentavano sussurrandogli a gran voce: “Non soffrire, non morire… VIVI!”

Il figlio dell’uomo non ascoltò la voce dell’ego, ma quella dello Spirito, cioè del Padre, e scelse la strada del supplizio. Il sé di Gesù aderì dunque totalmente al Sé divino, al Logos che in lui era disceso. Il sacrificio del più puro ed elevato tra gli uomini si fuse con il sacrificio della Divinità. Si attuò così la Riconciliazione fra l’umanità e Dio. L’equilibrio turbato dal Peccato Originale, da tutto il male (passato, presente e futuro) commesso dall’intera umanità, quell’equilibrio che gli uomini non sarebbero mai da soli riusciti a ricostituire, per quanti sforzi di riparazione avessero posto in essere nel corso di innumerevoli vite di dolore e di espiazione, quell’equilibrio si poté quindi ristabilire, perché il prezzo di dolore era stato pagato dallo stesso Logos, dal Figlio attraverso Gesù. Così, quando fu il tempo, l’uomo Gesù, ormai divinizzato, ascese al Cielo attraverso la nube senza che le forze egoiche in essa presenti (simbolizzate nel Vangelo dall’abbraccio di Maria di Magdala) potessero trattenerlo, poiché il Suo Cuore era ben più “leggero di una piuma”. (V. ultra al 4° Mistero).

Dopo la morte, il corpo fisico di Gesù, deposto nel sepolcro, si smaterializza in un’ esplosione di luce. La resurrezione si manifesta allora con la capacità da parte di Gesù di raccogliere atomi dalla materia dell’ambiente circostante e ricostruire la propria struttura fisica (grazie al Suo doppio ectoplasmatico), un involucro materiale temporaneo che Gli consente di rendersi visibile agli occhi ancora umani dei discepoli con i quali più volte (tre in tutto) si intrattiene dopo la Sua Morte, cenando e parlando con loro a riprova che la Sua morte non era vera morte; altresì dimostrando loro che era stato capace di vincerla così come ogni uomo sarebbe stato in grado di fare.

Nei Vangeli canonici non è specificata la assunzione di Gesù in Cielo attraverso una nube, ma ritroviamo tale particolare negli atti degli Apostoli al cap. 1/9-10:

Dette queste cose, mentre essi lo stavano guardando, fu levato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi.”

Viene detto ancora negli Atti degli Apostoli 1/11-12: “(…) Questo Gesù che è stato assunto in mezzo a voi verso il Cielo, verrà così in quel modo come lo avete visto andarsene in Cielo”.

E’ dunque previsto un ritorno di Gesù che discende dalla nube?

Forse tale incontro avverrà nel momento in cui anche noi, disumanizzati, ci trasformeremo da figli dell’uomo in Figli di Dio ascendendo a Lui proprio attraverso quella nube, o forse, abbandonato il corpo fisico dopo la morte, saremo trasportati all’interno della nube (l’Ade) ove vedremo Gesù farcisi incontro.

“Il Regno dei Cieli è dentro di voi”, aveva insegnato Gesù ai discepoli.

Due i percorsi che portano alla Nube: la morte prima ed il cammino iniziatico.

Per chi affronta la morte prima, la nube è luogo di stazione e di riflessione. E’ l’apice dell’Accoglienza di Dio. Tre le strade che dalla nube si dipartono: la prima verso il Regno; la seconda verso la morte secunda; la terza nella nuova rinascita nella carne, offerta al peccatore che vuole riparare o progredire sul piano spirituale.

Agli iniziati, coloro cioè che riescono nella non facile scalata ai Misteri ed attraverso Essi, è data la possibilità di esercitare l’ “accompagnamento”; colà ove cessa l’accoglienza di Dio ed ha inizio l’accompagnamento di coloro che dovranno, anzi potranno, scegliere il passo successivo. Questo potrà consistere nel fermarsi e morire, cessare di essere, ossia sprofondare nel silenzio immoto dell’Inferno ove lo Spirito individuale non ha più possibilità di esprimersi. Al contrario, l’IO Sono potrà chiedere di vivere nuovamente conservando la coscienza ed il soffio divino, al prezzo però di affrontare una volta ancòra la vita terrena con il carico karmico che essa impone. Gli spiriti degli iniziati, ad imitazione di Gesù che tutti accoglie ed accompagna, colà possono dare ai fratelli aiuto, conforto, sostegno, nella scelta del cammino di vita verso le regioni dell’Essere.

Sempre all’uomo è data libertà: essa, come abbiamo visto, riesce mirabilmente, divinamente, a conciliarsi con la giustizia (la legge del karma) e l’amore (‘ché l’accompagnamento non potrebbe definirsi altrimenti).

 

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